Le proteste dei georgiani dietro le sbarre
Da oltre due mesi Tbilisi protesta contro le elezioni manipolate dal Sogno Georgiano e la repressione si fa sempre più dura. Le testimonianze di ci è finito dietro le sbarre raccolte da Ekho Kavkaza: "Anche tra i poliziotti molti non sono contenti di quanto sta avvenendo nel nostro Paese”.
Tbilisi (AsiaNews) - Da due mesi abbondanti le piazze di Tbilisi, e di molte altre città della Georgia, sono animate da proteste di semplici cittadini, soprattutto giovani, che non accettano la deriva anti-europea e filorussa del Paese, in seguito a elezioni totalmente manipolate dalla casta di potere del Sogno Georgiano, il partito creato dall’oligarca putiniano Bidzina Ivanišvili. I raduni si spostano dal centrale prospekt Rustaveli, davanti al parlamento, ai vari angoli della capitale, e le repressioni delle forze dell’ordine si fanno sempre più dure, mettendo in prigione un numero ormai difficile da precisare di persone.
Un servizio di Ekho Kavkaza ha cercato di andare “dietro le quinte”, vale a dire dietro le sbarre di questo movimento di protesta, per dare voce a coloro che non possono più uscire in piazza. Il 41enne Roman Akopov, specialista informatico, è stato arrestato insieme ad altri il 18 gennaio nel quartiere Temka di Tbilisi, mentre dimostravano proprio davanti al palazzo della polizia. Un professore che era accanto a lui, di nome Guram, si era fasciato la testa con una sciarpa, per protestare contro la norma che vieta di coprirsi il volto, e per questo motivo i poliziotti hanno arrestato lui e tutti quelli che gli stavano vicini.
Roman racconta che “ci hanno fatti salire su un micro-autobus, ma senza violenze come in altri casi, anzi erano molto gentili con noi”, evidenziando un paradosso secondo cui “i rappresentanti delle autorità mostrano comprensione, ma il sistema è quello del terrore”. Si cerca di instillare nella popolazione un “trauma psicologico” per far sentire in colpa coloro che protestano, come i veri “nemici della patria”. In cella d’isolamento le condizioni sono tipiche dei tempi sovietici più bui, con la luce sempre accesa e l’impossibilità di dormire, “non viene concessa né la carta e la matita per scrivere, né i libri da leggere, si rischia di andare fuori di testa e ho cominciato ad avere allucinazioni”. A Roman sono stati perfino sequestrati gli occhiali, a causa della montatura in metallo.
Roman è riuscito solo a conversare con una delle guardie, che gli aveva chiesto se fosse stato arrestato durante le manifestazioni, e alla sua conferma ha visto come le parole gli si strozzavano in gola: “voleva dire qualcosa di consolatorio, ma non poteva… mi dispiaceva più per lui che per me, io ero prigioniero fisicamente, lui moralmente”. Alla fine lo hanno condotto davanti ai giudici in un lugubre scantinato “stile Lubjanka del Kgb”, condannandolo a pagare una multa di 2.200 lari (circa 500 euro), liberandolo dopo due settimane di “tortura psicologica”. Egli però ne è uscito “con ancora più speranza, perché ho visto che anche tra i poliziotti molti non sono contenti di quello che sta avvenendo in Georgia”.
Il racconto di Roman è confermato dalle testimonianze di molti altri attivisti arrestati, come il 34enne Zviad Robakidze, che aveva organizzato una protesta attorno al ristorante Babilo di Tbilisi dove si erano radunati i giudici cittadini per festeggiare i loro successi. La polizia ha sgombrato l’ingresso del locale, arrestando alcuni dei dimostranti, poi accusati di vandalismo e resistenza all’arresto. Zviad riferisce che “i poliziotti che ci hanno arrestato capivano che noi non siamo violenti, e non infrangiamo alcuna legge, si vedeva che in realtà stavano dalla nostra parte”. Quando i fermati sono stati messi dietro le sbarre, le guardie hanno assicurato loro che “qui starete bene, queste celle sono molto migliori delle altre prigioni cittadine”.
Quello che più fa soffrire i manifestanti messi sotto arresto è il “vuoto informativo”, e se possono comunicare tra loro passano il tempo a discutere dei destini del Paese, “al massimo facciamo qualche gioco verbale per passare il tempo”, racconta Zviad. Quello che più lo ha consolato era sapere che fuori dal carcere c’era un suo caro amico, David Simonja, che stava davanti alle porte con un cartello: “Il mio amico è in prigione, e io sono davanti alla prigione”. Più che le proteste politiche, nell’attuale conflitto sociale in Georgia quello che si esalta è lo spirito di fraternità, non solo tra gli oppositori al regime, ma perfino tra oppressi e oppressori.
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