Le acque inquinate rendono pericolosi gli allevamenti cinesi di pesci e molluschi
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – La carenza idrica e il diffuso inquinamento delle acque interne mettono in pericolo l’industria ittica cinese, la maggiore del mondo: pesci ma anche crostacei, molluschi, zampe di rana e altro destinati alle tavole di Giappone e Occidente, specie gli Stati Uniti.
L’industria ha prosperato per anni, favorita dalla diminuzione del pescato mondiale e dall’aumento della richiesta. Nel 2006 la Cina ha prodotto 52,16 miliardi di chilogrammi di prodotti ittici, circa il 70% degli allevamenti mondiali. Ci lavorano oltre 4,5 milioni di persone, secondo i dati dell’Ufficio dell’industria della pesca.
Ma oltre il 50% delle acque interne cinesi sono troppo inquinate e non adatte ad alcun uso umano. Da anni gli allevatori mischiano medicine illegali e pesticidi negli alimenti dei pesci, per tenerli in vita. Ma la loro carne assorbe sostanze nocive e cancerogene. Per esempio per le anguille è usato il nitrofurano, che uccide i microbi ma ha causato il cancro ai topi di laboratorio. Ora la Cina dice che ha fermato l’uso di simili sostanze, anche se ciò ha portato un diminuzione del 30% della sopravvivenza degli animali.
Peggio ancora nelle province industriali, come il Guangdong, dove le acque sono piene di sostanze tossiche: nei pesci sono stati trovati mercurio e metalli pesanti.
Unione europea e Giappone hanno più volte imposto bandi temporanei e gli Stati Uniti nel 2007 hanno proibito l’importazione di vari generi ittici cinesi. Nel 2007 sino a novembre gli Stati Uniti hanno rifiutato 210 bastimenti di prodotti ittici cinesi contenenti sostanze nocive, rispetto ai 2 della Thailandia, altro grosso esportatore.
La città di Fuqing (Fujian) è uno dei centri di questa industria, importata decenni fa da chi era emigrato per lavoro in Giappone e Taiwan. L’allevamento si è rivelato semplice (basta scavare i bacini e riempirli d’acqua) e proficuo. Lin Sunbao, il cui figlio ora studia all’università di Cambridge nel Regno Unito, racconta al New York Times che nei primi anni ’90 ha guadagnato oltre 500mila dollari l’anno “con un solo allevamento”.
Ma poi nella zona sono giunte le fabbriche tessili ed elettroniche e ora fiumi e bacini sono classificati come non adatti all’utilizzo umano, mentre nelle vicine acque costiere ci sono petrolio, piombo, mercurio e rame.
Ora molti allevamenti si sono spostati in zone incontaminate. Ma gli studiosi osservano che gli stessi giganteschi allevamenti ittici spesso gettano i propri rifiuti (escrementi, pesticidi e medicinali) senza trattarli, creando inquinamento. Le industrie ittiche hanno distrutto foreste di mangrovia in Thailandia, Vietnam e Cina e alterato l’equilibro ecologico. Il mare di alghe che ha invaso bacini interni come il lago Tai dipende dall’eccessiva quantità di elementi nutrienti nelle acque, cui gli allevamenti contribuiscono.
An Taicheng dell’Accademia cinese delle Scienze commenta che “occorre andare al mare, perché è sempre più difficile trovare acque pulite. Ogni anno ci sono problemi per i prodotti ittici. Altrimenti, un giorno nessuno mangerà più il nostro pesce".