05/10/2024, 08.55
MONDO RUSSO
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L'annessione della Russia a se stessa

di Stefano Caprio

Putin è soltanto l’ultimo erede dei tanti varjagi della storia russa, che hanno cercato di “portare la civiltà” nelle terre oltre confine e nel mondo intero. Oggi l’annessione si calcola non tanto in chilometri quadrati, ma in somme di “valori tradizionali” come potevano essere in passato la rivoluzione socialista o la difesa zarista delle autocrazie.

Sono passati ormai due anni dal 30 settembre 2022, quando al Cremlino venne solennemente annunciata la farsesca annessione delle quattro regioni occupate in Ucraina, quelle di Lugansk, Donetsk, Zaporižja e Kherson. Vladimir Putin intervenne con un ampio e confuso discorso programmatico, che altro non era che la ripetizione dei vari ritornelli propagandistici che accompagnano la “operazione militare speciale”. I “nuovi territori” della Russia non potevano del resto suscitare lo stesso entusiasmo dell’annessione della Crimea nel 2014, sia perché la penisola del mar Nero ha ben altro significato storico e simbolico, sia perché le terre del Donbass non sono mai state veramente conquistate fino in fondo, e rimangono fino ad oggi le diverse “ucraine”, vale a dire i “confini” dei due volti del mondo russo, quello orientale e quello occidentale.

Poco più di un mese dopo la proclamazione, infatti, le armate russe hanno dovuto abbandonare in fretta e furia la capitale Kherson della regione più meridionale, senza neppure fare in tempo a togliere gli striscioni con la scritta “La Russia è qui per sempre”, e nell’altra capitale Zaporižja non sono neanche riusciti ad entrare. Eppure la retorica dell’annessione rimane totale e inappellabile, nonostante i continui cambiamenti sul fronte degli scontri bellici in queste regioni. Gli abitanti dei territori occupati si dividono nel frattempo in diverse categorie: oltre ai fuggitivi relokanty, ci sono gli žduny, “quelli che aspettano” la liberazione dagli occupanti, chiamati kolonizatory in senso dispregiativo, oppure varjagi, come gli antichi scandinavi scesi a formare la Rus’ di Kiev alle origini della storia millenaria.

Questo richiamo ai variaghi (detti anche normanni o vichinghi, a seconda del contesto) è uno dei più esplicativi dell’origine delle teorie del “mondo russo”, perché mette l’ideale dell’annessione o della conquista al principio della stessa identità collettiva: il popolo russo non ha veramente un “proprio territorio”, ma si riconosce nella continua ricerca e unificazione di “territori nuovi”. I variaghi sono stranieri tanto quanto gli asiatici, i caucasici, gli europei o i turanici che in varie epoche hanno ricomposto e ampliato la “russicità”, intesa come somma e non come specificità di un ramo orientale degli slavi. Nelle narrazioni dell’antica annalistica che illustrano la “chiamata dei variaghi”, i gruppi dei russi che si affacciavano ai mari del nord nel IX secolo erano chiamati dagli scandinavi come l’insieme del Gardariki, la terra dei gard o paesi, centri abitati di una società tutta da inventare.

Lo stesso Putin aveva fatto un’affermazione che ricapitola questa storia antica e nuova, quando intervenne alcuni anni fa in un programma televisivo, dove alcuni ragazzi rispondevano con grande preparazione a domande su storia, geografia e altre materie. Alla domanda su “dove finiscono i confini della Russia”, uno di essi aveva elencato i termini estremi della mappa federale in tutte le coordinate, ma Putin lo ha interrotto, dicendo tra il serio e il faceto che “i confini della Russia non finiscono da nessuna parte”. Questo è davvero il motivo fondante della sobornost, la “comunione universale” che alimenta le tante varianti della socialità russa: andare oltre, non lasciarsi rinchiudere in nessuna dimensione, quell’attitudine che in russo si chiama bezpredelnost, la “assenza di limiti” che si può intendere come avventurismo o anche incontinenza, incapacità di rispettare qualunque regola, fossero pure gli accordi internazionali sui confini degli Stati.

Putin è soltanto l’ultimo erede dei tanti varjagi della storia russa, che hanno cercato di “portare la civiltà” nelle terre oltre confine e nel mondo intero. Oggi l’annessione si calcola non tanto in chilometri quadrati, ma in somme di “valori tradizionali” come potevano essere in passato la rivoluzione socialista o la difesa zarista delle autocrazie, la “terza internazionale” o la “terza Roma” di Ivan il terribile, fino al “sovranismo ortodosso” attuale. Non sono gli altri Stati che devono annettersi alla Russia, è la Russia che si “annette” alle terre e ai popoli in cerca della civiltà nuova e definitiva. Per questo gli striscioni della “Russia per sempre” rimangono anche nelle sconfitte e nelle ritirate, come a Kherson e in passato in tante altre situazioni; la Russia in effetti non ha mai vinto una guerra di occupazione e annessione, ma ha piuttosto dimostrato la capacità di espellere da sé stessa il nemico, dai Tartari, i Cavalieri Teutonici e gli Svedesi fino a Napoleone e Hitler, per affermarsi a Parigi e a Berlino come “nuove capitali” della Russia stessa.

L’annessione in fondo è un concetto definitorio, rispetto alla semplice “occupazione”, come quella degli ucraini nella regione di Kursk che non si ha intenzione di annettere, nonostante si potrebbero usare argomenti speculari, in quanto molti kuriane, gli abitanti della zona, parlano più volentieri la lingua ucraina rispetto a quella russa. Quando nei conflitti una nazione occupa un territorio, l’annessione è il risultato di un complesso procedimento di giustificazioni e accordi internazionali, come quando la Cina si annesse il Tibet nel 1951 grazie a un formale accordo con il governo locale, o Israele si prese Gerusalemme est con una legge nazionale. L’Ucraina ritiene oggi la Crimea e il Donbass come regioni “temporaneamente occupate”, e così rimarranno probabilmente per decenni o per secoli, mentre la Russia esalta sé stessa con le grida Krym Naš!, “la Crimea è nostra!” e anche, se pure con minore entusiasmo, Donbass Naš!.

Sia a Sebastopoli che a Donetsk l’annessione è stata consacrata con un “referendum popolare”, senza preoccuparsi di conferire ad esso neppure l’illusione della legittimità; già nel 2014, quando ancora non era in corso un aperto conflitto militare, i seggi erano presidiati dall’esercito russo. Il concetto di “sovranità” risulta molto aleatorio in questi territori, rispondendo soltanto a imposizioni di forza che producono finti consensi, il 95% in Crimea e addirittura il 99% a Lugansk e Donetsk, 93% a Zaporižja e “solo” l’87% a Kherson. Le autocrazie in generale amano i “referendum”, e non tanto per conferire una parvenza di democrazia, piuttosto per esaltare il consenso dell’intera popolazione e demoralizzare i contrari, convincendoli che non ci possono fare niente e allo stesso tempo scoraggiare le “rivolte di palazzo” di chi nelle élite di potere volesse contrapporsi al regime dominante.

Nei Paesi autoritari i referendum sono occasioni per effettuare ulteriori “giri di vite”, vantandosi della vittoria schiacciante. Come ha calcolato lo svizzero Centre for Research on Direct Democracy, su 876 plebisciti condotti tra il 1945 e il 2005, i dittatori hanno ricevuto in media il sostegno del 70%, con un’affluenza del 77,3%. Per raggiungere questi risultati serve un’efficace propaganda e una censura feroce, oltre a forme varie di manipolazioni e frodi elettorali. Ora i “nuovi territori” della Russia sono oggetto di particolari attenzioni, tanto più che a Putin e al patriarca Kirill non piace l’espressione “nuovi”, preferendo chiamarli “territori storici” della Russia, ben sapendo che si tratta di zone contese da secoli dove si radunavano i gruppi di cosacchi alla ricerca di “liberi territori”, non sottomessi ad alcuna autorità.

La Russia del resto non vuole legarsi troppo ai territori, preferendo l’estensione delle “sfere d’influenza” che travalicano ogni confine, come era proprio del regime sovietico, in cui le quindici repubbliche ufficiali si affiancavano ai tanti Stati “fratelli”, oggi declassati alla distinzione tra “amichevoli” e “non amichevoli”. Un fattore discriminante è certamente la quota di cittadini “russofoni” nei vari Paesi, ciò che risulta più evidente nei vicini come l’Ucraina, la Moldavia, la Georgia e l’Armenia nel Caucaso e nei Paesi dell’Asia centrale, dove si può parlare liberamente il russo con chi ha più di cinquant’anni, e con qualche difficoltà con i giovani. In Ucraina chiunque parla liberamente il russo, indipendentemente dalla regione, anche se dall’inizio del conflitto si preferisce evitare di usarlo, e comunque per Mosca la “russofonia” giustifica ogni tipo di ingerenza e invasione, perché chi parla russo è per definizione un esponente del “mondo russo”, fosse anche in Kenya, in India o in Venezuela, e la sua “riannessione” alla Russia non è altro che un ristabilimento della giustizia storica.

I nuovi o “storici” territori annessi oggi sono la vetrina del progetto putiniano, e vengono finanziati per almeno tre volte di più di tutte le altre cento regioni della Federazione russa, con grande apprezzamento di vari profittatori e corruttori. La stessa cosa avveniva con i Paesi Baltici ai tempi sovietici, con la Cecenia della prima fase putiniana, per non parlare della Crimea dell’ultimo decennio. Per ora gli abitanti del Donbass sono particolarmente necessari al sostegno dell’ideologia ufficiale, come “eroi e vittime dell’ucro-nazismo kievliano”, ma dovranno stare attenti alle future evoluzioni. Non si sa quanto la Russia rimarrà “annessa” su queste terre, ma già nella città desertificata di Mariupol, oltre ai militari, si sono trasferite 50 mila persone dalla Russia e dall’Asia centrale, per creare un “mondo nuovo” sulle rive del mar Nero. La Russia è un concetto in perenne evoluzione, si crea e si distrugge a seconda delle epoche e dei regimi, guardando alla prospettiva di un regno eterno sempre più imprevedibile.

 

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