La visita di Hillary Clinton in Israele innesca la Terza Intifada
Gerusalemme (AsiaNews) – Il 31 ottobre scorso Hillary Clinton ha compiuto una inaspettata e infruttuosa visita ad Abu Dhabi e a Gerusalemme per vedere Abu Mazen e Benjiamin Netanyahu. Alla fine dell’incontro col premier israeliano, ella ha dichiarato che i colloqui di pace devono riprendere anche se Israele non congela gli insediamenti nei territori occupati, dicendo tutto il contrario di quanto il suo presidente aveva dichiarato solo pochi mesi fa nel suo discorso al Cairo.
Questa ultima visita mostra che tutta l’attività diplomatica dell’amministrazione Obama sul problema israelo-palestinese è dolorosamente simile a quella delle amministrazioni precedenti, quella di George W.Bush e quelle prima di lui: un grande via-vai di ministri, inviati speciali che vanno su e giù dagli aerei, che viaggiano fra Washington, Tel Aviv e i Paesi vicini.
Il premier israeliano, il ministro della Difesa, gli inviati speciali del primo ministro, i consiglieri, sono di continuo sulla loro via per Washington e ritorno. Si fanno dichiarazioni opache, emergono interpretazioni senza grande effetto. Gli Usa esprimono scontentezza sulle attività delle colonie israeliane nei territori occupati con svariate educate definizioni quali “un ostacolo alla pace”, o qualcosa di “non utile”. Israele promette ancora una volta quanto ha promesso già molte volte, e cioè di “rimuovere” pochi “avamposti non autorizzati”, ma nello stesso tempo accelera una massiccia crescita di colonie “autorizzate” in ogni altra parte.
Come emerge dalle parole della Clinton, gli Usa, ormai disperati, hanno lasciato cadere il problema. Alla fine, l’industria del “processo di pace” sembra operare a piena capacità, mentre non succede nulla che avvicini alla pace, e mentre si rischia che succeda di tutto che possa bloccare l’opportunità del momento presente, riportando indietro l’orologio della storia.
Nei territori occupati della West Bank – mentre una piccola classe di funzionari di alto livello e favoriti imprenditori si danno alla bella vita – lo scontento popolare è di nuovo in crescita. Se non vi è progresso reale non tanto nel “processo di pace”, ma almeno nella fine dell’occupazione militare da una potenza straniera, gli analisti in Israele sono d’accordo nel dire che c’è la crescente possibilità di una “Terza Intifadah”. E quando questa scoppierà, allora i nazionalisti di destra in Israele avranno la “prova definitiva” che Israele non dovrebbe essere pressato verso la fine dell’occupazione e che non potrebbe per nulla pensare a un trattato di pace con un simile violento vicino….
Fino a poco tempo fa sembrava che questa volta, con l’amministrazione Obama sarebbe stato diverso, che il presidente aveva capito che mettere fine alla colonizzazione del territorio palestinese occupati era una necessaria e logica premessa per negoziati di pace con un significato. Il presidente aveva parlato in modo molto, morto determinato e aveva affrontato il tema in pubblico e in diverse occasioni. Ma come i suoi predecessori, anche lui è stato sconfitto dalla ben oliata risposta del governo israeliano: “sì, ma…”. “Sì, ma non nella grande Gerusalemme… Sì, ma dobbiamo per forza completare i (multipli) progetti già in corso…Sì, ma non dobbiamo congelare la costruzione di edifici pubblici…. Sì, ma le famiglie dei coloni devono poter crescere naturalmente… Sì, ma solo per poco tempo, magari sei mesi, magari, forse, 9 mesi!”. E così via fino a che la decisione di bloccare un insediamento diventa in se stesso insignificante, oltre che costantemente tradito dalla rapida costruzione che avviene sul terreno. Ma finora nemmeno una piccola e simbolica decisione è stata presa in tal senso…
Così quello che rimane è solo la parata (o meglio: i voli aerei) di personalità ufficiali attraverso l’Atlantico e il Mediterraneo, a ovest e ad est; ad est e ad ovest…
Ma lo scoppio di una nuova Intifadah (e l’inevitabile risposta militare) non è la sola possibile conseguenza del fallimento nell’intervenire con decisione. In prospettiva storica, un danno ancora maggiore, potrebbe essere il successo nel raggiungere la “riconciliazione nazionale” palestinese, portando nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), capeggiata da Mahmud Abbas (Abou Mazen), il movimento armato islamico di Hamas.
Di recente Hamas ha rifiutato la bozza di accordo negoziato sotto gli auspici egiziani, ma potrebbe sempre cambiare idea e l’Egitto sta lavorando sodo per questo. Il Cairo, è ovvio, ha le sue ragioni, legate alle sue preoccupazioni di sicurezza in rapporto alla Striscia di Gaza, la regione palestinese molto popolosa, attualmente governata di fatto da Hamas. Il patronato dell’Egitto non ha di mira solo una tregua o un “rapporto di lavoro” fra Olp e Hamas, ma una “mutazione genetica” dell’Olp. Questa, infatti, è nata come un movimento laico e nazionale, di certo non islamista. Tale “mutazione” (in un possibile movimento islamico) è senz’altro di corte vedute ed ingiusto verso il popolo palestinese, le cui aspirazioni sono state sempre articolate dall’Olp per uno Stato democratico e laico, non certo per una politica islamista.
Abou Mazen, da parte sua, è preoccupato per la crescente disillusione della sua gente. Ad esa, il tentativo di giungere alla libertà attraverso mezzi pacifici, fino ad ora sembra non portare da nessuna parte. Abu Mazen ha dichiarato un’elezione generale nei territori occupati per il 24 gennaio 2010. Essi dovrebbero portare al nuovo presidente e al nuovo parlamento per la semi-autonoma Autorità nazionale palestinese. Tutto ciò con l’idea di poter mantenere vive le speranze di una pacifica transizione verso la libertà, magari ricevendo da Usa ed Europa maggiore aiuto di quanto finora gli abbiano dato nel fermare l’invasione delle colonie. Non sappiamo se il gioco avrà successo: è quasi sicuro, infatti, che le elezioni non potranno svolgersi a Gaza, sotto il controllo delle milizie armate di Hamas. Alcuni pensano che l’annuncio delle elezioni è solo un complotto per costringere Hamas ad accettare la “proposta di riconciliazione nazionale”, o per tenere viva la speranza nel cuore dei palestinesi. In ogni caso le elezioni saranno rinviate e non solo una volta…
E in Israele? In Israele nessuno – nessuno che conti – è interessato in qualche modo al fonte palestinese. L’agenda del governo è focalizzata sull’Iran; sul costringere tutti gli altri a focalizzarsi sull’Iran; sulla crescente probabilità che Israele sia costretto a lanciare un attacco militare per non permettere all’Iran di avere armi nucleari – con incalcolabili conseguenze; o accettare il fatto che d’ora in poi esso dovrà vivere nella paura di essere distrutto.
Tale probabilità è cresciuta in modo esponenziale dopo la beffa iraniana di accettare-rifiutare la bozza negoziata con l’Onu sull’esportare il suo uranio arricchito.
Attualmente non ha alcuna importanza che l’Iran firmi o no, dato che ogni credibilità del regime di Ahmadinejad –se ne aveva ancora – è ormai perduta per sempre.
Il governo israeliano sta lavorando sodo per persuadere gli Stati Uniti, l’Europa e gli altri che il problema palestinese non ha alcuna importanza in confronto al dramma e alla possibile tragedia legate alla questione iraniana.
Anche se non tutti condividono la posizione di Israele, il governo di Tel Aviv è piuttosto fiducioso che la situazione palestinese è in ogni caso governabile, almeno fino a che la nuova amministrazione Usa andrà avanti a dire le stesse cose delle amministrazioni precedenti.
La Clinton è giunta il 31 a Gerusalemme e ha fatto le stesse cose che prima di lei hanno fatto Condoleeza Rice e Colin Powell: incontri, dichiarazioni, banchetti, e intanto si pianificano, costruiscono e inaugurano sempre più insediamenti di coloni, magari proprio mentre i segretari di Stato Usa sono sul terreno. Tutto come prima. Con il rischio di una guerra sempre più vicina.