14/03/2008, 00.00
IRAQ
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La rabbia e la disperazione dei cristiani di Mosul

AsiaNews raccoglie testimonianze tra i fedeli dell’arcivescovo trovato morto ieri. Il timore che la comunità ora possa estinguersi. La polizia irachena punta il dito contro al Qaeda. I progetti del terrorismo islamico per cacciare i cristiani dall’Iraq.
Mosul (AsiaNews) – Rabbia, paura e frustrazione sono i sentimenti più diffusi, a caldo, tra i cristiani di Mosul dopo il ritrovamento ieri del cadavere di mons. Faraj Rahho, tenuto ostaggio dai suoi rapitori per 14 giorni. Il suo sequestro e la sua uccisione non sono stati rivendicati, ma la polizia irachena è convinta che dietro ci sia la mano di al Qaeda. Oggi i funerali, celebrati dal patriarca caldeo card. Emmanuel III Delly a Karamles, hanno visto la presenza di migliaia di persone e di personalità politiche e religiose cristiane e musulmane. AsiaNews ha raccolto la testimonianza di alcuni dei fedeli dell’arcivescovo nell’ultima città roccaforte sunnita. “Per noi era la speranza, il fatto che nonostante le minacce e il pericolo continuava a starci a fianco ci ha dato il coraggio di andare avanti, non so cosa ci aspetta ora, non so dove troveremo la forza!”, dice Fadia. “Di lui quello che più rimaneva impresso era il sorriso – continua Bassam – anche se malato e in pericolo continuava ad andare in giro per le parrocchie a celebrare messa a testimoniarci la sua vicinanza e fede; ora sono preoccupato perché con lui hanno voluto colpire il cuore della nostra chiesa in questa città”.
 
Oggi il gen. Khaled Abdul Sattar , portavoce della polizia della provincia di Niniveh, ha dichiarato che la morte del vescovo è opera di al Qaeda. Fonti di AsiaNews vicine alle trattative seguite per il rilascio di mons. Rahho, raccontano che solo pochi giorni dopo l’inizio della vicenda si era già capito che si trattava di terroristi, intenzionati a cercare “fondi per il jihad e a premere per la fuoriuscita dei cristiani”. “Nelle telefonate fatte in quei giorni – continuano le fonti anonime – non si è mai parlato di ‘rilascio’ in senso letterale, chiedevano milioni di dollari, armi, uomini e di liberare i loro prigionieri in carcere, ma del vescovo non veniva mai fatto cenno, né ci hanno mai fatto parlare con lui”. Ma i rapitori non si limitavano a questo: “Tra insulti e minacce ci accusavano, come cristiani, di non essere schierati e di non contribuire alla liberazione dell’Iraq, ci dicevano che la nostra presenza non serve al Paese, che non ci siamo mai schierati, che non combattiamo e che per noi non c’è più posto qui”. Questi particolari confermano – come è successo già per alcuni casi di sequestri di sacerdoti – che l’industria dei rapimenti di cristiani in Iraq non è mossa solo dal denaro, ma nasconde un movente confessionale. Lo stesso mons. Rahho aveva denunciato l’esistenza in Iraq di un progetto per eliminare i cristiani, e che a Mosul trova la sua applicazione più evidente, essendo una città divisa nettamente su linee confessionali.
 
Il presidente Usa George W. Bush ha condannato ieri l’omicidio del vescovo. Ma i giovani a Mosul si chiedono oggi: “Dove sono gli americani e il nostro governo? Dove erano quando mons. Rahho è stato rapito? Da un mese, dopo l’annuncio dell’offensiva per ripulire la città, vediamo elicotteri volare sulle nostre case, ma per il resto non c’è nulla di nuovo, il fondamentalismo ha sempre più potere, la città è fuori dal controllo delle autorità”.
 
Mons. Rahho, arcivescovo di Mosul da 7 anni, non era solo il punto di riferimento della ormai esigua comunità caldea, ma anche un simbolo del dialogo con i musulmani. “Aveva molti amici tra i leader musulmani ed era una figura impegnato in prima persona nella promozione della convivenza pacifica”, aggiunge un uomo da Mosul. Aveva avviato anche iniziative importanti che con il tempo hanno assunto carattere ecumenico, come la “Fraternità della carità e gioia” per l’assistenza ai disabili. Nata nel 1986 nella parrocchia di San Paolo in breve si era diffusa in tutto il Paese, nelle chiese cattoliche e non.
 
Oggi a piangere il vescovo in Iraq sono i cristiani di ogni denominazione, come pure i responsabili religiosi musulmani. Anche i caldei della diaspora in Siria si dicono scioccati: “È come se fosse esplosa una bomba accanto noi, non so se riusciremo a risollevarci questa volta – ammette Farred di Mosul e da sei mesi a Damasco – la mia famiglia è ancora lì, ma ormai spero solo che riescano a venire via, non vedo un futuro per la nostra comunità nell’Iraq di oggi”. Domani nella capitale siriana la comunità caldea si riunirà in preghiera e con probabilità l’arcivescovo caldeo di Alepppo, mons. Antonie Audo di Aleppo celebrerà una messa nella parrocchia di Santa Teresa.
 
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