26/08/2023, 09.00
MONDO RUSSO
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La guerra russa delle bande di strada

di Stefano Caprio

Lo spettro di Prigožin, vivo o morto che sia, aleggerà sulla Russia ancora per molto tempo, come del resto avvenuto con tanti zar e zarevič del passato. Dopo la “conquista di Bakhmut” - uno scontro senza senso di mesi e mesi trasformato in leggenda eroica - la narrazione dell' "armata alternativa" non reggeva più la scena, e la mitologia ha mostrato tutta la sua inconsistenza.

Alla fine Vladimir Putin ha ottenuto la sua vittoria. Anche se con l’Ucraina le offensive e controffensive rimangono impantanate e contraddittorie, quello che conta è aver sconfitto i nemici interni, simbolicamente rappresentati dalle losche figure del “cuoco” Evgenij Prigožin e del suo fido “Mr. Wagner”, il capo dei tagliagole Dmitrij Utkin, sfracellati e carbonizzati nell’esplosione del business-jet in volo da Mosca verso la nativa San Pietroburgo, luogo di origine di tutti i contendenti. È la guerra dei gopniki, i “banditi di strada” secondo un gergo risalente alla malavita degli anni sovietici, il vero conflitto in corso da trent’anni in “tutte le Russie”.

Putin è il più potente di tutti i gopniki, sia che davvero abbia fatto fuori colui giusto due mesi fa aveva minacciato di sfrattarlo dal Cremlino, con la cosiddetta “marcia da TikTok”, sia che si tratti dell’ennesima sceneggiata da film d’azione di infimo livello, tipo quelli dell’amico attore Steven Seagal, e che in realtà tra i corpi carbonizzati ci siano soltanto i sosia di Prigožin e di Utkin. Si attendono le indagini, che secondo la promessa di Putin saranno “molto accurate”, e quindi si potranno immaginare altre manipolazioni, nemmeno alla prova del Dna si potrà credere ciecamente; del resto, il “cuoco” è (era) anche il “re dei troll” e delle fake news. L’effetto non cambia, sottoterra o alle Maldive è la stessa cosa, rimane solo il gopnik supremo, che grazie all’ex o non ex-amico abbattuto o nascosto, ha potuto far fuori tutti i comandanti e generali sgraditi, che lo criticavano per la debolezza nella guerra agli ucro-nazisti.

Molti si chiedono perché Putin abbia atteso due mesi per inscenare la grande vendetta, nella data precisa come piace a lui, amante dei giorni simbolici. La domanda ha una duplice dimensione: perché ha atteso così tanto, e perché ha atteso così poco. Due mesi sono tanti se si trattava di evitare il pericolo di un colpo di Stato, troppo pochi se era solo la vendetta, piatto che tradizionalmente va servito freddo, legge sempre rispettata dal padrino del Cremlino, che è abituato a far fuori i nemici e gli scomodi quando nessuno ci fa più caso, come testimonia la lunga lista degli “assassini eccellenti”, ora riesumata da tutta la stampa internazionale. Nel primo caso si pensa che serviva solo il tempo per aggiustare gli affari in Africa e ricollocare i “musicisti” in Bielorussia; nel secondo sembra che Putin non sia più in grado di contenersi, e la sua isteria attesta di una debolezza sempre più palese, altro che prova di forza.

Comunque sia, l’agenzia aerea Rosaviatsija ha comunicato qualche minuto dopo lo schianto e senza esitazioni che Prigožin e Utkin erano nella lista dei dieci passeggeri del jet, crollato a due passi dalla residenza-bunker di Putin vicino a Tver. La prima ipotesi è che l’aereo fosse stato abbattuto da un missile anti-aereo, in uno scenario degno delle tragedie belliche degli ultimi diciotto mesi. In seguito ci si è orientati sulla più prosaica valigia di esplosivo nascosta in qualche meandro a bordo, e anche le immagini in diretta del crollo verticale, subito diffuse, sembrano di scarsa sceneggiatura. Alla morte di Prigožin, in realtà, non credono né i suoi amici né i nemici, e il suo spettro, vivo o morto che sia, aleggerà sulla Russia ancora per molto tempo, come del resto avvenuto con tanti zar e zarevič del passato.

Il traditore Griša Otrepev, durante i “torbidi” all’inizio del Seicento, sosteneva di essere il figlio minore di Ivan il Terribile, il principe Dmitrij, morto soffocato mentre giocava al tiro a segno, per colpa attribuita al reggente Boris Godunov. Il cosacco rivoltoso Emelian Pugačev alla fine del Settecento si spacciava per lo zar Pietro III, fatto fuori dalla moglie, la zarina Caterina II, e anche lo zar Alessandro I, il vincitore di Napoleone, sembra che abbia inscenato la sua morte per sfuggire ai conflitti della Russia ottocentesca, riparandosi nella tajga siberiana come eremita, lo starets Fëdor Kuzmič. Questo tanto per rimanere ai casi più eclatanti rievocati in tante poesie e romanzi della grande letteratura russa, perfino in alcuni film d’autore di Andrej Tarkovskij e altri. Il destino dei falsi zar, gli alias vaganti, i samozvantsy (auto-chiamati) che vogliono proporsi come salvatori della Patria o del mondo intero, è un effetto collaterale dell’autocrazia divinizzata, che distribuisce angeli e demoni nelle ombre delle sue esasperazioni e fragilità, come avveniva al tempo dei faraoni d’Egitto e degli imperatori di Roma.

Del resto, anche la “morte di Prigožin” è un classico recente delle avventure eroiche della Russia. La prima volta era stata annunciata a ottobre del 2019 in Congo, dove già si era sfracellato un aereo da carico militare An-72 con otto persone a bordo, e il capo della Wagner era dato tra i passeggeri, salvo poi scoprire che non era tra loro. L’anno scorso su diversi canali Telegram era stato comunicato che il “cuoco” era morto durante gli scontri a Lugansk, ma presto lui stesso era riapparso con il suo sorriso beffardo, la parte più difficile da imitare per i suoi quattro sosia ufficiali, e per chissà quanti altri ancora. Far saltare in aria il proprio avversario era poi la pratica abituale dei gruppi mafiosi russi degli anni Novanta, che si contendevano il vuoto di potere e di affari lasciato dal crollo del regime, ed è proprio questo il terreno da cui sono spuntate piante maligne come quelle di Putin e Prigožin.

In un contesto del genere, sulle reti social russe si scatenano i commenti a favore delle varie testi complottistiche a favore o contro i protagonisti della vicenda, e non solo dagli utenti compulsivi dell’universo digitale, ma anche da parte di voci più o meno autorevoli. Il noto giornalista Konstantin Eggert parla di “stile Al Capone con i missili balistici” di quella che appare come “una pubblica condanna extra-giudiziaria di dieci cittadini russi con mezzi dell’esercito”, e non importa se “questi cittadini erano di fatto uno scarto della società”. Il grottesco attentato, secondo Eggert, rende evidente che “il capo non è un presidente, ma un bandito con i ferri da tortura come negli anni Novanta, da cui egli stesso fino ad oggi afferma di volerci salvare”. Invece di risolvere la crisi di sistema seguita alla fine del regime sovietico, Putin non ha fatto altro che prolungarla all’infinito. L’editore e politologo Sergej Parkhomenko ritiene che Prigožin “si sia sepolto da solo, alle Filippine o in Paraguay”.

Lo scrittore Mikhail Ševelev osserva che “l’unica garanzia di sopravvivenza di Prigožin erano le tre tonnellate di dossier compromettenti da lui raccolti nella sua carriera da plutocrate criminale. Lì c’è l’intero Rublevo-Uspenskoe šosse [il viale dei potenti]… se verranno fuori scandali può voler dire o che il cuoco abbia cambiato residenza, o che qualcun altro li usa per far fuori gli scomodi, prendiamo i pop-corn e aspettiamo di vedere chi è il beneficiario”. I commentatori favorevoli a Putin e alla guerra, per lo più, cercano di attribuire l’attentato agli ucraini o agli americani, “proprio nel Giorno dell’Indipendenza dell’Ucraina”, osserva il deputato e consigliere di Putin Sergej Markov. Il “polit-tecnologo” Marat Baširov, già membro del governo di Lugansk, ritiene che “gli eventi nel continente africano, in Niger in particolare, costituiscono una grande minaccia per gli interessi degli Usa e della Francia”, e Prigožin sarebbe stato colpito per impedire alla Wagner di spadroneggiare a quelle latitudini.

Uno dei principali voenkory, i “corrispondenti di guerra”, Evgenij Poddubnyj di Belgorod, si dice certo che l’assassinio di Prigožin sia una manovra di Kiev e della sua “struttura informativo-psicologica”, allo scopo di “aumentare la pressione sulla società russa” dopo lo scossone della marcia Wagner su Mosca, e ovviamente in questo c’è il sostegno “dei media mainstream dell’Occidente collettivo”, che si coordinano con gli ucraini. Il corrispondente della Bbc Ilja Barabanov ricorda che “in letteratura esiste il concetto di composizione anulare”, la ripetizione di determinati elementi all’inizio e alla fine di un’opera, una specie di “inclusione biblica” ricordando vari episodi di “eliminazione dei superflui” da parte dei membri della Wagner, finché il loro capo non è diventato a sua volta un “superfluo”.

Lo scrittore e politologo Kirill Rogov legge la vicenda come una satisfactio exerciti, dopo che per un anno Prigožin aveva umiliato i capi militari urlandogli contro ogni sorta di accusa, sostenendo che “la vita di un solo combattente della Wagner vale molto più di venti soldati professionisti dell’esercito russo”. La marcia su Mosca a favore di pubblico social, ricorda Rogov, aveva comportato la morte proprio di 20 soldati, uccisi soltanto “a scopo dimostrativo”, e non si può rimanere ai vertici delle Forze Armate della grande Russia e “farsi impunemente insultare da un delinquente raccomandato, che di mestiere porta il pranzo ai ragazzi delle scuole”.

Il “mito di Prigožin” si era costruito a primavera-estate del 2022, quando l’esercito russo demoralizzato non sapeva come correggere l’assurda iniziativa putiniana di invadere e conquistare l’Ucraina in quattro e quattr’otto. Allora il “cuoco” ha offerto al capo l’alternativa del “mito dell’armata alternativa”, in grado di sostituire quella ufficiale e raggiungere i risultati sperati, in barba a tutti i generali. Dopo la “conquista di Bakhmut”, uno scontro senza senso di mesi e mesi trasformato in leggenda eroica, questa narrazione non reggeva più la scena, e la mitologia ha mostrato tutta la sua inconsistenza. Putin ha vinto, dimostrando che la legge della Russia, ormai, è solo la legge della giungla.

 

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