08/02/2025, 08.45
MONDO RUSSO
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La fine della guerra del Maidan ucraino

di Stefano Caprio

A prescindere dai suoi leader e dalle sue espressioni politiche e culturali, l’Ucraina va ricostruita non solo nelle città e nelle case, come immagina il Grande Immobiliarista salito al trono dell’impero americano. Va ricostruita come un valico di confine tra il risentimento e la speranza, tra la Russia e tutto il resto del mondo

Si avvicina la fine degli scontri bellici tra la Russia e l’Ucraina, almeno come tregua necessaria per estenuazione da una parte e, dall’altra, tra gli annunci surreali del vecchio neo-presidente americano Donald Trump, che sogna da una parte la Gaza Beach palestinese, dall’altra l’isola del tesoro delle terre rare ucraine. Siamo ormai vicini al terzo anniversario dell’invasione russa, che secondo Putin sarebbe dovuta arrivare fino a Kiev se non ci fossero state le promesse ingannevoli dei leader europei, che promettevano la resa ucraina se i russi avessero avuto un po’ di pazienza. E siamo nel mese cruciale della fine dell’inverno, mai così caldo nelle terre del settentrione, al punto che quasi si può fare il bagno nell’Artico per la gioia dei russi, che vedono sciogliersi le barriere glaciali al dominio del mondo.

Siamo nel mese “caldo” delle rivolte ucraine, il “mese del Maidan” che ricorda le vicende del 2014, quando tra il 22 dicembre e il 22 febbraio lo Spetsnaz Berkut, la squadra di eredità sovietica dei servizi ucraini ancora guidata dai russi, si mise a sparare sistematicamente sui dimostranti della piazza centrale di Kiev, superando le cento vittime, un evento che in Ucraina si ricorda ogni anno come il vero inizio della guerra russa. Non si cancella la memoria di quanti passarono l’inverno non solo nel Maidan di Kiev, la “libera piazza” secondo il significato originario del termine, ma anche in quelle di tutte le città dell’Ucraina. Si raccolgono le storie, le fotografie e i commentari di quel mese del Memoriz, per non perdere lo spirito di quei giorni di fronte alle tragedie che ne seguirono negli anni fino ad oggi.

È passato del tempo, la guerra si è trasformata da ibrida a incandescente, e quindi stanziale e di trincea, ma gli scopi del Cremlino sono rimasti sempre gli stessi: inghiottire nuovamente la “Piccola Russia” ucraina, la “pancia agricola” delle terre feconde che ingrassano la Grande Russia, che ora fanno gola anche all’America per i minerali preziosi che custodiscono. L’Euro-Maidan del 2014, del resto, richiama a sua volta il Maidan del 2004, la “rivoluzione arancione” che ebbe luogo tra novembre e gennaio in tutte le piazze ucraine, nel primo scontro tra il candidato del Cremlino, Viktor Janukovič, e l’ex-primo ministro filo-occidentale Viktor Jušenko. Al ballottaggio, il “Partito delle regioni” del Donetsk, sotto la regia del Cremlino, “corresse” circa 750mila voti a favore di Janukovič, suscitando le proteste di massa nel Maidan Nezaležnosti, la “piazza dell’Indipendenza” di Kiev, con manifestazioni che durarono diverse settimane.

La “rivoluzione” ebbe inizio il 21 novembre 2004, quando fu annunciata la vittoria di Janukovič con il 3% dei voti in più dell’avversario. Si contrapposero allora le regioni occidentali e centrali, compresa la capitale Kiev, a sostegno di Jušenko, mentre il “vassallo del Cremlino” era appoggiato da quelle orientali e meridionali, oggi “annesse” dalla guerra di Putin. Molti politici europei cercarono di proporsi come mediatori, a partire dal presidente polacco Aleksandr Kwasniewski, il segretario della Nato e commissario europeo Xavier Solana, il presidente lituano Valdas Adamkus e l’ex-presidente della Polonia Lech Walesa. Il 3 dicembre 2004 la Corte suprema dell’Ucraina riconobbe l’invalidità delle elezioni, per interferenze negli organi d’informazione e violazione di molte altre regole, e le elezioni vennero ripetute il 26 dicembre, quando Jušenko vinse con uno scarto del 7,8%.

Sulla piazza del Maidan in quei giorni si radunarono per circa due mesi le masse di mezzo milione di persone, piantando le tende sotto la neve come successe dieci anni dopo, ancora contro Janukovič, poi diventato premier dopo l’avvelenamento di Jušenko, e che aveva rifiutato gli accordi con l’Unione Europea. Sono passati più di vent’anni, e quello che si poteva fare allora per fermare la deriva bellica non è stato né sufficiente né compreso, trascinando l’Europa e il mondo intero in una ridefinizione degli equilibri politici, economici, culturali e religiosi. Sul Maidan era in gioco molto di più dell’indipendenza dell’Ucraina, e le tragedie degli ultimi tre anni lo hanno reso evidente a tutti.
Nel 2004 si riuscì a evitare gli scontri aperti e le vittime, che invece si verificarono nel 2014, per diventare tragedie di massa nel 2022. Il Cremlino non dimenticò allora le pretese dei manifestanti, e nel 2014 non si fece remore a ordinare di sparare direttamente alla gente sotto l’occhio delle telecamere nella piazza di una delle capitali centrali dell’Europa, in diretta televisiva, superando perfino le titubanze dello stesso Janukovič, che cercava di evitare lo scontro diretto. Ora il presidente deposto trascorre la pensione in una villa della periferia di Mosca, accanto al collega di sventure Bashar Assad, anch’egli costretto a fuggire dalla Siria. Il figlio più giovane di Janukovič, Viktor Viktorovič, morì annegato nel lago Bajkal in Siberia nel 2015 in circostanze misteriose, come diverse altre persone legate al presidente deposto, mentre l’altro figlio Aleksandr oggi guadagna miliardi smerciando il carbone delle miniere del Donbass, la regione russificata di cui il padre fu governatore, agli albori della sua carriera politica.

La riconquista dell’Ucraina è stato uno degli scopi della politica di Vladimir Putin fin dagli inizi della sua presidenza, un quarto di secolo fa, mentre si occupava di spegnere i fuochi della guerra civile in Cecenia e metteva ordine nel Caucaso, la prima regione di cui si dovette occupare e che manifestava l’instabilità scaturita dalla fine dell’Unione Sovietica. Quello che servivano erano i soldi, accumulati grazie agli affari del petrolio con l’Occidente, che hanno permesso l’inizio dei conflitti grazie alle riserve accumulate nei primi anni Duemila, che ora si stanno esaurendo giusto in tempo per dividersi il territorio con il nuovo presidente americano, “uomo pratico” gradito al Cremlino. L’inviato speciale di Trump per la crisi ucraina, Keith Kellog, ha cominciato a dire che una volta cessate le operazioni belliche, Volodymyr Zelenskyj dovrebbe convocare elezioni presidenziali e parlamentari, e si torna quindi indietro al 2004, con il gioco delle parti gradito a Mosca, in tempi in cui le ingerenze e le manipolazioni sono ancora più facili e sistematiche, grazie alle nuove tecnologie.

Dopo il primo Maidan del 2004, i russi riuscirono in vario modo ad “acquistarsi” il governo e il presidente, lo speaker e il vice-speaker della Verkhovnaja Rada e la maggioranza parlamentare, fino a far nominare una direzione dell’esercito ucraino totalmente sotto il controllo di Mosca; eppure l’Ucraina si è poi scrollata di dosso la catena del padrone. Non si può comunque dimenticare quanto siano strettamente legati i due popoli, in realtà i due volti dello stesso popolo erede dell’antica Rus’, come ripetono i russi, tralasciando il fatto che la parte ucraina è sempre stata rivolta ad Occidente, nonostante tutti i tentativi di farla rimanere legata all’Oriente eurasiatico. Dal Cremlino si ripetono ossessivamente le accuse di “invasione occidentale”, dando la colpa agli americani e agli europei, agli inglesi e alla Nato, quando il conflitto è insito nell’anima stessa della Russia, della sua storia e della sua cultura,  e anche della sua religione che non può in nessun modo estraniarsi dal mondo cristiano e occidentale, per quanto cerchi di riformularsi nella Ortodossia militante ed esclusiva, in opposizione anche alle altre Chiese ortodosse a partire dal patriarcato di Costantinopoli, che anche in questi giorni ha ribadito la “irreversibilità dell’autocefalia ucraina”, proclamata a gennaio del 2019.

I russi non sanno più con chi prendersela, mancano solo i marziani e i rettiliani, che entreranno presto negli orizzonti geopolitici, vista l’intenzione di Trump e del suo sponsor Elon Musk di colonizzare anche Marte. E chissà che un giorno anche quello non venga proclamato parte del “mondo russo”, non fosse altro che per il suo titolo bellico. Il vero avversario rimane sempre il popolo ucraino, che dimostra la possibilità di vivere l’eredità dell’antica Kiev senza pretese imperiali, ma come parte dell’Europa dei popoli e delle culture diverse, dei cristiani greci, latini, sassoni e slavi come si è formata nei secoli. La propaganda putiniana non riesce a superare due espressioni assolutamente tabù, quella della “guerra”, sostituita dalla “operazione speciale” e quella della stessa Ucraina, il titolo di “confine” che non si vuole riconoscere, usando gli epiteti degli “ucronazisti” o la definizione dei malorossy, i “piccoli russi”, per non ammettere che esista un popolo uguale e contrario a sé stessi.

Il popolo ucraino, stremato e disorientato, erede a sua volta delle mille contraddizioni delle pretese sovietiche di grandezza e isolamento dal mondo, è oggi il vero portatore di una nuova speranza per il futuro dell’Europa, dell’Occidente, della pace universale. A prescindere dai suoi leader e dalle sue espressioni politiche e culturali, oggi molto condizionate dal conflitto con i russi, l’Ucraina va ricostruita non solo nelle città e nelle case, come immagina il Grande Immobiliarista salito al trono dell’impero americano, che vede solo i villaggi turistici e i complessi residenziali come speranza per il futuro. Va ricostruita un’Ucraina interiore dell’anima di ciascuno, un valico di confine tra il risentimento e la speranza, tra la Russia e tutto il resto del mondo, perché non si può costruire un mondo che escluda i popoli e i milioni di persone che li compongono, qualunque siano le loro colpe e le loro pretese, le storie e le tragedie. L’Ucraina è la profezia di un mondo senza confini.

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