29/11/2023, 08.47
ASIA CENTRALE
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La crisi del cotone in Asia centrale

di Vladimir Rozanskij

Definita anche “l’oro bianco” questa coltivazione costituisce per tradizione uno dei principali volani economici della regione. La disperazione di milioni di coltivatori per il crollo dei prezzi della materia prima sui mercati. Effetto della crisi economica ma anche dell'ingresso di grandi gruppi che hanno sconvolto i mercati locali.

Tashkent (AsiaNews) - Il rallentamento dell'economia mondiale, insieme ai cambiamenti climatici, stanno complicando moltissimo il settore della coltivazione del cotone, “l’oro bianco” che da tradizione antica costituisce uno dei principali volani economici dei Paesi dell’Asia centrale, sostenuto moltissimo anche nei tempi sovietici. I coltivatori sono in fermento, anche perché ritengono di essere trattati ingiustamente da parte dei padroni del mercato.

Il cotone richiama ricordi di grandi sacrifici e sofferenze per le popolazioni di questi Paesi, fin dai tempi dell’espansione dell’impero russo, con fenomeni molto intensi di sfruttamento economico e di catastrofi ecologiche. È una delle attività più diffuse, che impegna milioni di persone nella coltivazione, e i bassissimi prezzi del mercato all’ingrosso di questa stagione agricola stanno colpendo seriamente la vita di quasi tutte le famiglie. Come scrive un utente uzbeko di Telegram, “ogni mattina rimaniamo con il fiato sospeso, sperando di vedere informazioni ufficiali sui prezzi d’acquisto che ci risollevino il morale almeno un poco”.

Purtroppo da tempo non ci sono novità incoraggianti in merito, e come dice l’agricoltore del gruppo social, “passiamo tutta la giornata in depressione, e non possiamo fare piani per il futuro”. Il canale Telegram dei coltivatori di cotone conta oltre 20 mila iscritti, il che illustra l’ampiezza della comunità in Uzbekistan, uno dei principali esportatori di cotone in tutto il mondo. Secondo i dati ufficiali, gli uzbeki impegnati in questa attività sono oltre 2 milioni, a cui si aggiungono molti altri per le raccolte stagionali.

Anche il Turkmenistan fa parte dei primi dieci produttori, e poco meno contano il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tagikistan. Alla fine delle limitazioni per il coronavirus i prezzi del cotone grezzo sono inizialmente volati alle stelle, raggiungendo i 3,3 dollari al chilo, ma dalla metà del 2022 sono di nuovo crollati, fino alla quota media attuale di 1,76 dollari. Per gli analisti il crollo del prezzo del cotone è considerato un indicatore di una recessione globale, visto che si è verificato a fronte di un’inflazione galoppante e di una indeterminatezza nella catena di forniture, fattori che di solito mantengono i prezzi a galla, in attesa di chiarimenti.

In molte parti del mondo, e specialmente in Asia centrale, ci sono stati lunghi periodi di siccità, in cui il cotone non si riusciva a coltivare, eppure i prezzi sono rimasti molto bassi. I commercianti all’ingrosso offrono 0,73 dollari per un chilo di cotone, che non basta quasi nemmeno per coprire le spese di produzione. In Tagikistan il prezzo medio è di 0,6 dollari, mentre le spese di coltivazione aumentano sempre più, circa 1300 dollari all’ettaro. Eppure molti pensano che il problema non sia soltanto la crisi globale, ma soprattutto le manovre speculative di alcuni cluster, le compagnie integrate verticali che una volta erano controllate dallo Stato, mentre oggi stanno agendo senza regole.

Questi gruppi sono attivi sui territori centrasiatici dal 2018, approfittando del boicottaggio di molti brand internazionali a causa delle condizioni quasi schiavistiche di queste coltivazioni, in cui vengono forzati alla raccolta perfino gli studenti e i minorenni in generale. Le compagnie miste, soprattutto quelle uzbeke/tedesche, hanno fatto in modo da diffondere informazioni che mettessero fine ai boicottaggi, che negli ultimi anni sono ritenuti ormai “non sistematici”, tranne che in Turkmenistan dove sono le stesse autorità statali a costringere tutti alla raccolta forzata.

I coltivatori di cotone hanno in realtà poca libertà di scelta, non avendo reali alternative di produzione sui propri terreni, anche quando risulta poco conveniente. Le grandi compagnie sono appoggiate dai governi, e resta solo da sperare in stagioni più generose dal punto di vista climatico, per non soffocare nelle tempeste di polvere e nella miseria dei mercati.

 

Foto: Flickr / David Stanley

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