La celebrazione penitenziale davanti a una vittima di abusi
Nella Sala Regia del palazzo apostolico, la richiesta di perdono del papa e dei membri dell’incontro su “La protezione dei minori nella Chiesa”. L’omelia tenuta da mons. Philip Naameh, arcivescovo di Tamale e presidente della Conferenza episcopale del Ghana. La giovane vittima ha anche suonato un preludio di J.S. Bach.
Città del Vaticano (AsiaNews) – “Dio di misericordia” donaci “il coraggio di dire la verità e la sapienza per riconoscere dove abbiamo peccato”, “riempici di pentimento sincero e donaci il perdono e la pace”. Così papa Francesco ha introdotto la celebrazione penitenziale, oggi pomeriggio nella Sala Regia in Vaticano, a conclusione della terza giornata dell’incontro su “La protezione dei minori nella Chiesa”.
L’omelia della liturgia, un commento sulla parabola del figliol prodigo, è tenuta da mons. Philip Naameh, arcivescovo di Tamale e presidente della Conferenza episcopale del Ghana.
In un paragone con quanto avvenuto in questi giorni, con la richiesta di rompere il silenzio e di agire davanti agli abusi, egli dice: “La sua [del figliol prodigo] situazione cambia quando egli si riconosce e ammette di avere fatto un errore, lo confessa al padre, ne parla con lui apertamente ed è pronto a subirne le conseguenze. In questo modo, il Padre sperimenta la grande gioia per il ritorno del suo figlio prodigo e aiuta a far sì che i fratelli si accettino vicendevolmente”.
Ma il punto più drammatico della celebrazione è stato il momento in cui una vittima di abusi (latinoamericano) ha offerto la sua testimonianza che pubblichiamo qui integralmente. Dopo questa testimonianza, la stessa persona ha eseguito col violino una musica di J.S. Bach, quasi un segno di un'esistenza che riprende a vivere.
L’abuso, di qualsiasi tipo, è l’umiliazione più grande che un individuo possa subire. Ci si deve confrontare con la consapevolezza di non potersi difendere contro la forza superiore dell’aggressore. Non si può fuggire a ciò che succede, ma si deve sopportare, non importa quanto sia brutto. Quando si vive l’abuso, si vorrebbe porre fine a tutto. Ma non è possibile.
Si vorrebbe fuggire, così accade che non si è più se stessi. Si vorrebbe scappare cercando di scappare da sé stessi. Così, nel tempo, si diventa completamente soli. Sei solo, perché ti sei ritirato da un’altra parte, e non puoi o non vuoi ritornare a te stesso. Quanto più spesso succede, tanto meno ritorni in te. Sei qualcun altro, e rimarrai sempre tale. Ciò che ti porti dentro è come un fantasma, che gli altri non sono capaci di vedere. Non ti vedranno e conosceranno mai completamente. Ciò che fa più male è la certezza che nessuno ti capirà. Essa rimane con te per il resto della tua vita.
I tentativi di ritornare al sé più vero, e partecipare al mondo «precedente», come prima dell’abuso, sono altrettanto dolorosi dell’abuso in sé. Si vive sempre in due mondi allo stesso tempo. Vorrei che gli aggressori potessero comprendere di creare questa scissione nelle vittime. Per il resto della nostra vita.
Più è grande il tuo desidero e i tuoi tentativi di riconciliare questi due mondi, più dolorosa è la certezza che non è possibile. Non c’è sogno senza ricordi di ciò che è successo, nessun giorno senza rievocazioni (flashback).
Ora riesco a gestire meglio questa situazione, imparando a convivere con queste due vite. Cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo. Io posso e devo essere qui. Questo mi dà coraggio. È finita ora. Posso andare avanti. Devo andare avanti. Se mi arrendessi ora o mi fermassi, lascerei che questa ingiustizia interferisca nella mia vita. Posso impedire che questo accada imparando a controllarlo e imparando a parlarne.
24/02/2019 11:36