La Russia di papa Francesco
Desiderava con tutta l’anima di recuperare il volto della “folle santità” della Russia, quello dei suoi monaci e dei suoi pellegrini, dei suoi grandi artisti e musicisti, dei suoi scrittori capaci di aprire orizzonti di vera unione universale. Per questo ha citato spesso Dostoevskij. Ora nella sua morte ci promette che in questa inestricabile lotta interiore tra il male e il bene nell’animo umano si rivela sempre il volto di Cristo.
Papa Francesco viene oggi onorato da capi di Stato e rappresentanti di quasi tutti i Paesi del mondo, sottolineando l’universalità del suo ruolo e della sua stessa personalità, che per tutta la vita ha saputo guardare più lontano delle abituali rotte delle attività ecclesiastiche, fino ai territori più dimenticati e “periferici”. A renderlo un punto di riferimento per tutti non sono stati soltanto i suoi numerosi viaggi apostolici, ma le sue parole e i suoi incontri, la sua capacità di comunicare con tutti senza formalismi, guardando in faccia gli interlocutori di tutti i livelli ed estrazioni sociali, nel tempo della connessione mondiale fluida e digitale.
Alla cerimonia non è presente il presidente russo Vladimir Putin, che ha inviato la sua ministra della cultura, Olga Ljubimova, e neppure il patriarca di Mosca Kirill (Gundjaev), con cui si era abbracciato fraternamente all’Avana nel 2016, anch’egli sostituito dal metropolita Antonij (Sevrjuk). Putin non può rischiare l’arresto per i crimini internazionali, e Kirill non può sedersi al fianco del suo principale avversario nel mondo ortodosso, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo (Archontonis). Eppure la Russia è una presenza forte nella cerimonia di commemorazione del pontefice scomparso, essendo stata per tutta la sua vita una terra di grande attrattiva, per la sua storia e la sua cultura, prima ancora che per i calcoli di geopolitica ecclesiastica.
Come più volte ribadito dai grandi ideologi putiniani, e dallo stesso Kirill, fanno parte del “mondo russo” non soltanto i russi etnici e i popoli storicamente legati alla Russia, ma anche tutte le persone che ammirano la grandezza dell’Eurasia, che rispettano le tradizioni religiose e culturali della Russia, ne apprezzano la lingua e la letteratura e ne condividono l’afflato della sobornost, l’unione universale dei popoli e delle terre di Oriente e Occidente. In questo senso, papa Francesco è stato senza dubbio il papa del Russkij Mir, non certo nella deriva bellica e apocalittica del putinismo ortodosso di guerra, ma nel riconoscimento di un approccio importante al dramma dell’umano, disperso in territori sconfinati e portato continuamente verso gli eccessi del bene e del male, spesso cercando il bene attraverso il male.
L’iconografia russa, di eredità bizantina, presenta una versione estrema della “prospettiva rovesciata”, quella che trova il punto di fuga non nell’orizzonte lontano, ma nell’anima dello spettatore, che viene trasfigurato dalla luce della sacra immagine di Cristo, della Madre di Dio e dei santi. È questo il modo di annunciare il Vangelo che ha vissuto l’argentino Jorge Mario Bergoglio, dalle estremità verso il cuore, dalla “fine del mondo” verso la sede di Pietro, luogo di raccolta di tutti gli aneliti e le attese dell’uomo. È la caratteristica principale della tanto ricercata “idea russa”, che sorprende proprio per il completo rovesciamento dei movimenti e dei passaggi storici. Non è solo la pittura sacra o la liturgia solenne, vissuta con un pathos sconosciuto agli stessi padri bizantini, ma è l’intera storia della Russia che costringe a ritrovare sé stessi dopo essersi irrimediabilmente perduti, come gli “ultimi” a cui il papa ha sempre cercato di rivolgersi.
Come la Rus di Kiev venne annichilita dall’invasione e dal giogo dei tataro-mongoli, così la Moscovia imperiale si è scontrata con le sue diverse anime nella guerra infinita con la Polonia e con l’Europa intera, fino all’attuale guerra in Ucraina, nel rovinoso tentativo di conquistare la Turchia fino a Gerusalemme e nello stravolgimento di ogni ideale spirituale nella rivoluzione ateista del “giogo sovietico” novecentesco. Il trentennio successivo al crollo dell’impero comunista si è rivelato nuovamente un vortice inverso della storia, riducendo la rinata religione ortodossa a strumento della distruzione e della tensione alla fine del mondo, risalendo e ripercorrendo le tragedie del passato. Tutto questo era ben chiaro nella mente di papa Francesco, che desiderava con tutta l’anima di recuperare il volto della “folle santità” della Russia, quello dei suoi monaci e dei suoi pellegrini, dei suoi grandi artisti e musicisti, dei suoi scrittori capaci di aprire orizzonti di vera unione universale.
Uno dei più decisivi tra questi scrittori fu indubbiamente Fëdor Dostoevskij, il preferito di papa Bergoglio. Il pontefice lo ha citato spesso nei suoi discorsi, ricordando le sue opere maggiori come Delitto e Castigo, I Demoni e I fratelli Karamazov, per la sua capacità di esplorare la complessità dell’animo umano e le questioni religiose e morali. La caratteristica principale di Dostoevskij era proprio la “prospettiva rovesciata” dell’animo, descrivendo personaggi che nel male più profondo erano inevitabilmente portati a scoprire una verità superiore, a riconoscere il vero volto di Dio. Francesco ha utilizzato Dostoevskij per illustrare concetti come la fede, la sofferenza, la redenzione e la guerra, come la famosa “Leggenda del Grande Inquisitore” per riflettere sulla natura della fede e della libertà umana.
In un messaggio alla Russia, il papa ha utilizzato un passaggio dei Demoni per sottolineare come la guerra sia un oltraggio a Dio. Del resto, proprio in questo romanzo si esprime il vertice della contrapposizione tra l’uomo e Dio, come nell’affermazione di uno dei rivoluzionari protagonisti del racconto, Kirillov, che afferma che “se non c’è Dio, io sono Dio”, e per sottrarsi alla Sua volontà “sono costretto ad affermare il mio libero arbitrio”. Ricordando un episodio realmente avvenuto nella Russia di metà Ottocento, il giovane spiega che “sono obbligato a spararmi, senza nessun motivo, solo per libero arbitrio”: uccidendo sé stesso, egli intende uccidere Dio. È proprio la forma “rovesciata” dell’ascesa monastica, che nelle tradizioni dell’esicasmo russo prevede “l’annullamento di sé” per lasciare spazio a Dio.
Pochi mesi dopo la sua elezione, nel dicembre 2013, papa Francesco ha citato Dostoevskij parlando della sofferenza dei bambini, uno dei temi fondamentali dei Fratelli Karamazov. Egli affermava che lo scrittore russo è come “un maestro di vita”, spiegando che “l’unica preghiera che a me viene è la preghiera del perché”, come il grido di Ivan Karamazov di ribellione a Dio e al destino, a cui cerca risposte nelle tentazioni diaboliche riproposte dal Grande Inquisitore (un cardinale cattolico) a Cristo tornato sulla terra, che va nuovamente ucciso perché non torni a donare all’uomo la libertà. Nel giugno del 2021, parlando ai seminaristi delle Marche, il pontefice consigliava di “leggere anche quegli scrittori che hanno saputo guardare dentro all’animo umano, penso ad esempio a Dostoevskij, che nelle misere vicende del dolore terrestre ha saputo svelare la bellezza dell’amore che salva”.
Per Bergoglio “queste non sono questioni per letterati, è per crescere in umanità”. Egli insisteva che “bisogna leggere i grandi umanisti, perché un sacerdote può essere molto disciplinato, può essere capace di spiegare bene la teologia, anche la filosofia, tante cose, ma se non è umano, non serve, gli manca qualcosa, gli manca il cuore… bisogna essere esperti in umanità”. Anche nell’aprile 2022, sullo sfondo della polemica da parte dell’Ucraina sulla presenza alla Via Crucis del venerdì santo di due donne, una ucraina e l’altra russa, papa Francesco citò Dostoevskij all’udienza generale, per sottolineare che “la pace di Gesù non sovrasta gli altri, non è mai una pace armata… le armi del Vangelo sono la preghiera, la tenerezza, il perdono e l’amore gratuito al prossimo, l’amore a ogni prossimo”.
Nel maggio 2023, ricevendo in udienza i partecipanti al convegno promosso dalla rivista La Civiltà Cattolica con la Georgetown University sul tema “L’estetica globale dell’immaginazione cattolica”, parlò dell’ortodosso Dostoevskij quando affermava che “tante volte le inquietudini sono seppellite in fondo al cuore”. Quindi citò un passaggio dei Fratelli Karamazov in cui si racconta di “un bambino, piccolo, figlio di una serva, che lancia una pietra e colpisce la zampa di uno dei cani del padrone. Allora il padrone aizza tutti i cani contro il bambino, lui scappa e prova a salvarsi dalla furia del branco, ma finisce per essere sbranato sotto gli occhi soddisfatti del generale e quelli disperati della madre”. Secondo il papa “questa scena ha una potenza artistica e politica tremenda, parla della realtà di ieri e di oggi, delle guerre, dei conflitti sociali, dei nostri egoismi personali, della contraddittorietà dell’esistenza”.
Dostoevskij interveniva anche nei dibattiti pubblici, affermando la necessità di conquistare la Turchia, la Terrasanta e il mondo intero, unendo gli slavi e quindi gli altri popoli per realizzare la salvezza russa delle anime, anticipando le teorie più estreme del “mondo russo”. Lo scrittore non riportava però soltanto queste tensioni distruttive nei suoi romanzi, ma anche tutte quelle contrarie e differenti, e non si poteva mai capire a quale dei personaggi volesse identificarsi. Forse l’eroe più simbolico di tutta la sua letteratura è proprio L’Idiota, impersonato dal principe Myškin malato di epilessia, che giunge dall’Europa in Russia per annunciare una nuova visione del Vangelo, e criticando i cattolici che “ci hanno condotto all’ateismo”, infine proclama: “mostrate al russo il mondo russo, fate che egli trovi quell’oro, quel tesoro che la sua terra gli nasconde. Mostrategli nel lontano avvenire il rinnovamento di tutto il genere umano anzi, la sua resurrezione in virtù dell’unica idea russa, del Dio russo, del Cristo russo, e vedrete quale possente gigante di giustizia, di saggezza e di amore si presenterà al cospetto del mondo stupefatto e atterrito. Stupefatto e atterrito perché, da noi, il mondo si aspetta il ferro e il fuoco… si aspetta la violenza perché, utilizzando il proprio metro di giudizio, non sa descriverci se non immaginandoci simili ai barbari. Così è sempre stato e così sarà ancora domani, in misura sempre maggiore”.
La Russia di papa Francesco è quella di Dostoevskij e tanti altri uomini d’arte e di cultura, la Russia che cerca una nuova resurrezione, anche “mettendo il mondo a ferro e fuoco”. Nella sua morte, il grande papa “russofilo” ci promette che in questa inestricabile lotta interiore tra il male e il bene nell’animo umano si rivela sempre il volto di Cristo, il salvatore di ciascun uomo e di ciascun popolo, cominciando sempre dagli ultimi.
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