05/04/2005, 00.00
Vaticano - Cina
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La Cina che chiude le porte ed ha paura del papa

di Bernardo Cervellera

Roma (AsiaNews) - Ai funerali di Giovanni Paolo II non ci sarà nessun rappresentante della Cina Popolare. Preoccupata dagli effetti che potrebbe produrre il riconoscimento della libertà di religione, la Cina, infatti è fra le poche nazioni che ancora non hanno rapporti diplomatici con la Santa Sede. Eppure forse nessun paese al mondo come la Cina ha avuto un posto nel cuore del papa defunto. Mi è capitato ogni tanto di accompagnare sacerdoti o suore cinesi in visita a Roma alla messa del mattino nella cappella privata di Giovanni Paolo II. Ebbene tutte le volte il papa ci diceva che egli pregava ogni giorno per il popolo cinese.

Fin dalla sua elezione a pontefice il papa ha guardato alla Cina: il cardinale in pectore da lui designato alla fine del conclave è stato l'allora arcivescovo di Shanghai Ignazio Gong Pinmei, in prigione da oltre 25 anni per la sua fedeltà al papa. Alcuni dicono che anche il cardinale in pectore dell'ultimo concistoro fosse un vescovo cinese della chiesa ufficiale.

Giovanni Paolo II non ha mai perso un'occasione per rivolgersi alla Cina e alla sua chiesa. Dal '79 in poi vi sono almeno 30 discorsi ufficiali che hanno a tema la presenza dei cristiani nella Repubblica Popolare cinese e il desiderio di un rapporto di collaborazione fra la Santa Sede e Pechino. In tutti questi discorsi Giovanni Paolo II ha sempre elogiato la grande cultura e storia della Cina e la fedeltà dei cattolici cinesi pur sotto le persecuzioni; ha sempre spiegato che ogni "buon cattolico" è anche un "buon cittadino" del suo Stato e che la Cina non deve perciò temere nulla dai cristiani; che la fede rende ancora più creativi e propositivi per il progresso della nazione. In cambio, il pontefice ha sempre  e solo chiesto la libertà religiosa per i cristiani e la libertà per la Santa Sede di poter nominare i vescovi. Per tutta risposta, il governo per oltre 26 anni ha sempre preteso come pre-condizioni che la Santa Sede rompa le relazioni con Taiwan e accetti di non intromettersi negli affari interni della Cina, anche quelli religiosi.

Dagli anni '80 in poi il Vaticano ha nominato per Taipei non un nunzio, ma  solo un incaricato d'affari: Pechino sembra non aver mai colto questo gesto.

Negli anni '90 il papa ha anche chiesto a Madre Teresa di fare da "ambasciatrice" verso il governo di Pechino. Madre Teresa è andata 3 volte in Cina domandando di poter aprire una casa per le sue suore e di occuparsi dei poveri. La risposta della Cina è stata che nel loro paese "non vi sono poveri".

Perfino l'ultimo, accorato appello, fatto in occasione del 400mo anniversario dell'arrivo di Matteo Ricci a Pechino (24 ottobre 2001), in cui il papa arriva a esprimere "rammarico" per possibili errori passati, e chiede soltanto di "lavorare insieme per il bene del popolo cinese e per la pace nel mondo", trova Pechino fredda e senza parole.

Il papa dell' "aprite le porte a Cristo" ha trovato chiusa la porta della Cina. Ma il fallimento è difficilmente attribuibile al papa stesso. Il punto è che a tutto il ventaglio di gesti di affetto e d'attenzione espressi dal papa, la Cina ha sempre risposto con la chiusura ideologica.

Quando nell'81 mons. Dominic Tang, all'estero per motivi di salute – dopo aver passato 22 anni in prigione – è giunto a Roma ed è stato insignito del titolo di arcivescovo di Canton  (era amministratore apostolico della città), Pechino ha inveito contro le trame del Vaticano che cospira contro la Cina e non ha più permesso al prelato di ritornare a Canton.

Nel 1985 il governo cinese ha espulso – sempre per motivi di salute – mons. Ignazio Gong Pinmei. Nel '91 il papa lo ha accolto a Roma e ha concelebrato con lui, rivestendolo della porpora cardinalizia. Pechino furibonda ha accusato Giovanni Paolo II di "intromissione negli affari interni della Cina".

Finché il Partito comunista cinese ha avuto un minimo di consistenza ideologica, l'ostilità verso il papa poteva essere giustificata. In fondo, Giovanni Paolo II era  considerato colui che aveva fatto fallire il comunismo in Europa e quindi da considerare il nemico numero uno. Ma dagli anni '90 in poi, in Cina nessuno più crede al comunismo e le risposte ideologiche contro la Santa Sede hanno solo un senso di paura. Mentre il bagaglio ideologico si sfascia e cresce invece il "capitalismo selvaggio", il partito deve fare i conti con una realtà che non aveva mai previsto: la rinascita religiosa e cattolica in particolare. Giovani e adulti, contadini e professionisti, disgustati dalla corruzione del partito e delusi dal tradimento degli ideali di giustizia predicati un tempo, affollano i templi e le chiese e molti scoprono il cristianesimo come la strada per affermare la loro dignità e la democrazia.

Nello stesso tempo, grazie all'opera e alla magnanimità di Giovanni Paolo II, molti vescovi della chiesa ufficiale, nominati da Pechino, si rivolgono al papa chiedendo perdono e riconciliazione.

Il fallimento dei rapporti diplomatici sono frutto del doppio fallimento cinese: non essere riuscito a sradicare le religioni; non essere riuscito a creare una chiesa nazionale che rifiuti il legame con Roma.

Mentre Pechino continua a perdere terreno nella stima dei suoi cittadini, cresce invece la stima per il papa. Nelle università di Pechino e Shanghai più del 60% degli studenti si dice molto interessato al cristianesimo.

Il timore di vedere una chiesa sempre più forte, spinge Pechino ad offrire nel '99 un inizio di dialogo per le relazioni diplomatiche, ma solo a condizione che venga eliminata la chiesa sotterranea e affermare il controllo del governo sulla Chiesa e sulle nomine dei vescovi. E mentre alcuni segretari a Roma preparano i primi passi di dialogo, Pechino arresta vescovi e sacerdoti sotterranei, distrugge chiese, proibisce ai figli dei cristiani sotterranei di poter frequentare scuole e università. Anche per la Chiesa ufficiale si apre un periodo di controlli spasmodici e si fanno leggi e regolamenti per la supervisione di attività, conventi, seminari, vescovi, sacerdoti.

Il 1 ottobre del 2000 il papa canonizza 120 martiri cinesi. Il governo scopre che cattolici sotterranei e ufficiali, si preparano uniti a celebrare messe, fare pellegrinaggi, distribuire insieme storie dei futuri santi. Per dividere questa unità ritrovata della Chiesa,  Pechino inscena una risibile pantomima accusando il Vaticano di sfidare la Cina: il 1 ottobre è infatti il giorno della fondazione della Repubblica popolare cinese.

Il papa arriva fino a scrivere una lettera personale al presidente Jiang Zemin spiegando che la canonizzazione è fatta col desiderio di onorare il popolo cinese. Da Pechino non arriva nessuna risposta.

Anche le parole di condoglianze per la morte del papa, espresse dal portavoce del ministro degli Esteri in questi giorni, sanno più di paura che di reale dolore. La stima dei cinesi verso Giovanni Paolo II è così grande che Pechino non ha potuto fare a meno di parlarne e con una certa rozzezza ha aggiunto, al messaggio di simpatia, le famose condizioni per iniziare i dialoghi per i rapporti diplomatici. Negli stessi giorni la Cina ha continuato ad arrestare vescovi e sacerdoti della chiesa sotterranea. Ma ormai anche la chiesa ufficiale consiglia al Vaticano di non mollare: senza una piena libertà religiosa, è meglio non avere alcun rapporto diplomatico.
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