La Cambogia processa i khmer rossi. Primo imputato il compagno “Duch”
Phnom Penh (AsiaNews/Agenzie) – Il 17 febbraio in Cambogia si aprirà il primo processo a carico di un esponente dei khmer rossi. Alla sbarra Kaing Guek Eay, meglio conosciuto come il compagno “Duch”, uno dei cinque leader del vecchio regime oggi in carcere e in attesa di giudizio. Fra i teste chiave nel dibattimento vi sarà Vann Nath, uno dei sette sopravvissuti alla prigione S-21 (la famigerata Security Prison 21, oggi ribattezzata Tuol Sleng) all’interno della quale sono morte più di 17mila persone fra il 1975 e il 1979. Di questi sette solo tre sono ancora vivi.
Il compagno “Duch” – 66 anni – dovrà rispondere di “crimini di guerra” e di “crimini contro l’umanità”. Sul suo capo pende l’accusa di aver diretto la S-21 nel quadriennio 1975-79, all’interno della quale sono stati commessi ogni tipo di crimini: torture, stupri e più di cento omicidi al giorno. È il primo procedimento in assoluto a carico di un esponente di prima fila dei khmer rossi; esso si terrà presso il Tribunale speciale della Corte di Cambogia, un organismo creato e sostenuto dalle Nazioni Unite, al quale è affidato il compito di giudicare i crimini compiuti dai seguaci di Pol Pot negli anni ’70.
La storia del compagno “Duch” è legata, nel bene e nel male, alla sorte di Vann Nath, la cui vita ha ispirato un film sui massacri perpetrati dai khmer rossi; ora verrà ascoltato per la prima volta in un’aula di tribunale, nel processo a carico del suo aguzzino. Nath ricorda ancora con nitidezza quel giorno di aprile del 1977, in cui venne arrestato da una squadra di khmer rossi, legato e spintonato su un carro per buoi, senza la possibilità di salutare la moglie e i due figli. Che non avrebbe mai più riabbracciato, vittime pure loro della follia omicida dei “rivoluzionari”. Egli è ansioso di vedere l’inizio del processo, ma non coltiva sentimenti di vendetta: “Ero arrabbiato – racconta – ma il periodo della rabbia è passato. Questo è il periodo in cui bisogna trovare le soluzioni”.
Vann Nath è nato nel 1946 a Battambang, nel nord-ovest della Cambogia. Egli è ancora oggi uno dei più importanti artisti del Paese ed è grazie a questo “dono” che è riuscito a sopravvivere ai terribili anni di prigionia. Egli è stato scelto dal compagno “Duch” come artista per dipingere ritratti e realizzare sculture di Pol Pot. Nel 1979, all’indomani dell’invasione dell’esercito vietnamita e della successiva caduta del regime, è riuscito a fuggire dalla S-21; quando la prigione segreta è stata riconvertita in un museo della “memoria”, egli ha varcato di nuovo le soglie del carcere per lavorare alla sua ricostruzione e testimoniare in prima persona i massacri e le torture. Attraverso i suoi quadri (nella foto), l’artista ha descritto le scene di cui è stato testimone; oggi sono appesi alle pareti della prigione-museo.
Nel 2010 dovrebbe iniziare il processo a carico di altre quattro figure di primo piano del regime. Essi sono: Khieu Samphan, 77 anni, ex capo di Stato; Ieng Sary, 83 anni, Ministro degli esteri; Ieng Thirith, 76 anni, moglie di Sary e Ministro per gli affari sociali; Nuon Chea, 82 anni, ideologo del regime e soprannominato “fratello numero 2”. Pol Pot, il sanguinario dittatore conosciuto come “fratello numero 1” è morto il 15 aprile del 1998, senza aver mai risposto delle atrocità commesse.
Il tribunale chiamato a giudicare i crimini in Cambogia è stato creato nel maggio 2006, dopo otto anni di trattative tra Phnom Penh e le Nazioni Unite, che hanno fatto mettere in dubbio la volontà del governo di renderlo operativo. Il Consiglio supremo della magistratura ha approvato la nomina di 17 giudici cambogiani e 13 di altri Paesi. Nel 2008 il tribunale speciale ha attraversato una profonda crisi finanziaria: il fondo originario di 56 milioni di dollari stanziato per i primi tre anni è risultato insufficiente, i costi sono lievitati a causa delle numerose udienze preliminari volute dai giudici e permane il pericolo che gli sforzi fatti sinora per mettere alla sbarra gli esponenti del regime risultino vani.
Il dramma cambogiano resta ancora una ferita aperta nel Paese: secondo un recente sondaggio l’80% delle persone si sente “vittima dei crimini” compiuti dai khmer rossi, alcuni dei quali però – soprattutto fra gli esponenti di secondo grado e i quadri del vecchio regime – occupano un ruolo attivo nella vita politica del Paese. Essi non hanno alcun interesse ad approfondire indagini per crimini commessi nel passato per connivenza, paura o perché convinti della follia rivoluzionaria di Pol Pot, che non ha esitato a sterminare quasi due milioni di persone pur di creare “l’uomo nuovo” in Cambogia. Gli imputati hanno anche una età avanzata: alcuni sono gravemente malati e vi è il rischio concreto che non vedano nemmeno la fine del processo.
Una beffa ulteriore per quanti, come Vann Nath, non chiedono vendetta ma solo giustizia a nome di un quarto della popolazione cambogiana: “Ciò che è successo non può essere modificato. Io – conclude – chiedo solo giustizia. Giustizia per me significa vedere i responsabili [dei massacri] ammettere la loro colpa. Spero che i giudici sappiano renderci giustizia”.