Israele restringe i visti per sacerdoti e religiosi in Terra Santa
Tel Aviv (AsiaNews) – Il ministero israeliano degli Interni sta rifiutando visti di entrata a sacerdoti e membri di ordini religiosi e sta anche riducendo il loro periodo di permanenza in Terra Santa. Fra essi non vi sono solo personalità del mondo arabo, ma anche notissime personalità ed esperti biblici dall’Europa e dall’Africa. La politica restrittiva si è acutizzata da quanto lo Shas, il partito fondamentalista, e ritornato a controllare il ministero degli Interni nel nuovo governo Netanyahu. Esso sta provocando nuove difficoltà ne rapporto fra Israele e la Chiesa cattolica e il Vaticano.
L’ultima tornata dei negoziati fra Santa Sede e Israele si è conclusa il 29 ottobre. In modo prevedibile, si è riaffermata la buona “atmosfera” e la reciproca buona volontà, sebbene non vi sia alcun segno sul quando sarà varato l’Accordo tanto atteso. È pur vero che diversi osservatori guardano come un segnale positivo l’aver fissato altri due giorni di lavoro nella sessione di novembre, e la Plenaria per il 10 dicembre in Vaticano. In essa, per la prima volta, la delegazione vaticana sarà guidata da mons. Ettore Balestrero, nuovo Sottosegretario per i rapporti con gli Stati.
Come si sa, l’Accordo in discussione da più di 10 anni, intende giungere a ridare sicurezza alla Chiesa in Israele, riconfermando la storica esenzione dalle tasse e salvaguardando la proprietà dei Luoghi santi.
Eppure nuove difficoltà si aprono ogni giorno per la Chiesa, e non solo dal punto di vista fiscale.
Il ritorno dello Shas alla guida del ministero degli Interni sta portando nuovi problemi ai sacerdoti e ai religiosi. Nella natura delle cose in Terra Santa, la maggioranza di essi, che vengono da altri Paesi, hanno bisogno di un permesso di entrata nello Stato perché possano lavorarvi.
Nei primi anni di vita dello Stato d’Israele, essi avevano la possibilità di divenire residenti (sebbene anche allora, veniva loro negata sempre la cittadinanza). In seguito, lo Stato ha attuato una politica di diniego della residenza, offrendo solo dei visa che necessitano essere rinnovati dopo un certo periodo.
All’inizio questi visa erano dati per cinque anni alla volta; in seguito il periodo è stato ridotto a due anni per gli europei, a un anno per cittadini di Paesi arabi (citando preoccupazioni di sicurezza).
L’ultima volta che lo Shas ha controllato il ministero degli Esteri, diversi anni fa, l’emissione e il rinnovo dei visti sono stati fermati in blocco. Dall’oggi al domani circa 200 personalità ecclesiastiche sono stati ridotti a migranti illegali e hanno rischiato l’arresto e la deportazione.
Solo la diffusione della notizia nell’opinione pubblica mondiale e una forte pressione internazionale ha permesso la riapertura dei visti, seppure con condizioni peggiori.
A tutt’oggi fonti ecclesiali affermano che i problemi rimangono e non sono confinati solo a religiosi o sacerdoti provenienti da Paesi arabi. Almeno due preti africani, attesi a Gerusalemme per lavorare in un centro di studi biblici, non hanno ricevuto il visto. A diversi sacerdoti europei, che pure hanno lavorato e vissuto in Israele per molti anni, è stato negato perfino il visto per due anni. Alcuni hanno ricevuto il visto solo per un anno, sebbene essi siano molto noti e Israele sia stata la loro casa per tanto tempo.
Ciò che è in gioco è il carattere internazionale della presenza della Chiesa cattolica nella Terra Santa. Come Roma, anche la Terra Santa è un luogo dove appare evidente l’universalità della Chiesa cattolica. Se a seminaristi, preti, religiosi da tutto il mondo si rende impossibile il lavoro, la preghiera, la pastorale in Terra Santa, in pratica si minaccia questo carattere specifico (universalità) della presenza della Chiesa nella terra del Redentore.
Le autorità cattoliche in Terra Santa, profondamente preoccupate da quanto succede, sono però esitanti nell’alzare la voce, per timore che ogni dichiarazione pubblica possa avere conseguenze negative sulle loro istituzioni. Ma è possibile che a breve scoppi una nuova “crisi dei visti” se la direzione non viene corretta.
Per persuadere lo Stato a riprendersi il controllo dei visti, togliendolo ai fondamentalisti, le autorità ecclesiastiche possono basarsi proprio sull’Accordo Fondamentale fra la Santa Sede e lo Stato di Israele del 1993. In esso, all’art.3, Par. 2, si afferma che lo Stato riconosce il diritto della Chiesa a “dispiegare” il proprio personale in Israele.
Il frate francescano p. David Maria A. Jaeger è un noto esperto nelle relazioni Chiesa-Stato in Israele. Egli è stato parte del gruppo bilaterale che ha scritto l’Accordo. Raggiunto da AsiaNews egli conferma che il senso di quanto scritto nell’Accordo e in riferimento alla libertà del personale ecclesiastico di entrare in Terra Santa, fa notare l’uso non comune della parola “dispiegare”.
“Naturalmente – aggiunge – più oltre nel testo la Chiesa riconosce il diritto dello Stato di garantire la sicurezza della sua gente. Nel presente contesto, ciò significa che lo Stato può in buona fede rifiutare il permesso di entrata a individui che potrebbero mettere a rischio la sicurezza pubblica; ma d’altro canto, lo Stato non può sostituirsi al giudizio della Chiesa per ciò che riguarda il personale che essa voglia ‘dispiegare’ in Israele per le sue istituzioni e per i suoi scopi, da qualunque parte del mondo essi vengano”.
P. Jaeger ha precisato che egli non vuole commentare i fatti e le violazioni di cui si parla. Come giurista, egli dice, “ho fiducia che la chiave per la soluzione di ogni difficoltà su questo punto sta proprio nell’Accordo Fondamentale del 1993”.