Israele apre le porte ai migranti asiatici per rimpiazzare i lavoratori palestinesi
La guerra contro Hamas provoca un profondo cambiamento nel mercato del lavoro. Fra i settori più colpiti agricoltura ed edilizia. Fuggiti decine di migliaia di thailandesi e nepalesi, oltre al blocco dei permessi per i palestinesi e il richiamo di 350mila riservisti. India (e Sri Lanka) guardano con interesse alle opportunità, anche se il governo di Delhi cancella le tutele sociali.
Gerusalemme (AsiaNews) - Per sopperire alla mancanza di lavoratori palestinesi, bloccati in Cisgiordania (e Gaza) dall’inizio della guerra lanciata contro Hamas nella Striscia in risposta all’attacco terrorista del 7 ottobre, il governo israeliano apre le porte ai migranti dall’Asia. Nel fine settimana l’esecutivo, su iniziativa del ministero dell’Agricoltura (uno dei settori più colpiti dalla carenza di manodopera assieme all’edilizia) ha approvato l’innalzamento della quota di stranieri impiegati nel comparto di altre 10mila unità rispetto alla soglia attuale. Un riflesso ulteriore del conflitto, oltre al tributo di sangue e alle gravissime distruzioni nell’enclave, visto che sono almeno 25mila i palestinesi - lavoratori agricoli e braccianti - che non sono più potuti entrare in Israele negli ultimi 100 giorni di guerra.
I nuovi arrivi servono anche a sostituire quanti sono fuggiti all’indomani dell’attacco di Hamas che ha provocato un bilancio durissimo anche fra i lavoratori migranti in Israele in termini di uccisioni e rapimenti. A partire dalle comunità di espatriati provenienti dalla Thailandia e dal Nepal, come abbiamo più volte ricordato in queste settimane, che hanno pagato un grave tributo di sangue e ancora oggi attendono notizie sulla sorte dei concittadini nelle mani dei miliziani.
Alle oltre 25mila vittime palestinesi nella Striscia, che si sommano alle 1200 vittime dell’attacco del 7 ottobre di Hamas in Israele, la guerra ha provocato anche un profondo cambiamento della forza lavoro: oltre 29mila stranieri, in maggioranza thailandesi impiegati nel settore agricolo fra aziende, serre e impianti di imballaggio, hanno lasciato il Paese; inoltre, in queste settimane l’esercito israeliano ha reclutato oltre 350mila riservisti, causando un buco che difficilmente si può colmare contando sulla forza lavoro interna a Israele.
Fra i settori in crisi, oltre all’agricolo vi è pure quello delle costruzioni: prima dell’attacco di Hamas vi erano circa 82mila palestinesi occupanti, pari a un terzo circa del totale. Senza questi lavoratori - oltre ad altri 2mila provenienti da Cina ed est Europa che sono tornati a casa dopo il 7 ottobre - i cantieri in tutto Israele si sono arenati, danneggiando in modo significativo l’economia.
L’Associazione israeliana dei costruttori (Iba) stima che il settore, fra i più importanti e con un indotto di 71 miliardi di dollari nel 2022, abbia operato al 15% della capacità prebellica. Da qui il ricorso agli stranieri, in particolari in Sri Lanka e India dove è partita una vera e propria caccia all’impiego: nei giorni scorsi l’università Maharshi Dayanand di Rohtak, in Haryana, ha promosso un’iniziativa volta a ingaggiare oltre 10mila lavoratori edili da inviare in Israele. “Ho fatto domanda - sottolinea Govind Singh, un candidato - per questa opportunità online. Dopo essermi registrato, ho aspettato la selezione per il reclutamento. Sono un muratore e un esperto di lavori in gesso. Spero che la mia esperienza venga accettata dagli imprenditori israeliani”.
Presso il centro di prova, i funzionari israeliani hanno allestito diverse simulazioni in ambito edilizio, proponendo anche una dimostrazione pratica fra le prove finali. “I posti vacanti riguardano lavori in ferro, taglio e montaggio di piastrelle, montaggio di pannelli in legno e lavori in gesso. I candidati - ha spiegato uno degli esaminatori - saranno selezionati solo dopo lo screening delle loro competenze da parte degli esperti”.
Opportunità che attirano l’interesse, nonostante una situazione in tema di sicurezza ancora critica per i rischi legati a una nazione esposta a più fronti di guerra: a sud con Hamas nella Striscia e a nord le tensioni con gli Hezbollah libanesi, che hanno spinto le autorità governative indiane a revocare le tutele sociali concesse a quanti, di solito, vanno all’estero per lavoro in zone di conflitto. Come spiegava nei giorni scorsi in un lungo approfondimento il quotidiano The Hindu, citando diversi documenti ufficiali, i lavoratori espatriati in Israele non potranno beneficiare di “copertura medica o garanzie di impiego” concesse abitualmente da Delhi ai concittadini diretti nel Golfo.
Poco importa, per quanti cercano impiego: “Se il nostro destino è quello di morire, allora possiamo morire qui o là. La mia speranza è che andiamo a fare un buon lavoro, passiamo un po’ di tempo e torniamo” racconta Sharma, che punta a guadagnare fino a 12mila dollari in un anno: “Potrei impiegare almeno cinque anni - spiega - per guadagnare la stessa somma di denaro in India” dove si registra peraltro un tasso elevato di disoccupazione giovanile (oltre 17% sotto i 29 anni).
Un vero e proprio stravolgimento della forza lavoro, con la cacciata dei palestinesi avallata anche da una parte consistente dell’esecutivo, partendo dai deputati del Likud che puntano ad escluderli nel lungo periodo perché “rappresentano un rischio per la sicurezza”. Una politica che preoccupa ong e gruppi attivisti pro-diritti umani, fra i quali il britannico FairSquare che di recente ha lanciato un appello diretto soprattutto a Delhi, esortandola a “non inviare” i propri cittadini in Israele “per sostituire i lavoratori palestinesi deportati” in un quadro complessivo di “vile via libera ai crimini di guerra”. Parole, e appelli, che sembrano però destinati a cadere nel vuoto.