Inflazione cinese +6,5% a luglio, mai così alta da 3 anni
Gli alimentari aumentano del 14,8%, +56,7% per la carne di maiale. Il governo non riesce a controllare l’inflazione, ma le misure finora prese hanno creato difficoltà alle piccole imprese, fondamento dell’economia. Esperti: occorre rivedere il modello di sviluppo e privilegiare le esigenze della popolazione.
Pechino (AsiaNews/Agenzie) – L’inflazione cresce in Cina del 6,5% a luglio (era stata del 6,4% a giugno), record da 37 mesi, smentendo la generale previsione che il governo stesse riuscendo a contenerla. Il dato è grave anche perché ben maggiore è la crescita dei prezzi degli alimenti, principale voce di spesa per le famiglie con redditi bassi e medi: +14,8% a luglio, ben oltre il limite del 4% fissato dal governo per il 2011.
Gli alimenti-base della cucina cinese crescono senza limiti: a luglio il prezzo della carne di maiale è aumentato del 56,7%, le uova del 19,7%, la verdura fresca del 7,6%. Peraltro gli aumenti avvengono all’origine e i venditori al dettaglio lamentano che i loro guadagni diminuiscono di continuo, per le minori vendite e per la necessità di erodere il ricavo per restare competitivi.
Inoltre l’attuale difficoltà globale dei mercati finanziari sconsiglia l’adozione degli usuali strumenti di intervento del governo. La centrale Banca di Cina ha aumentato 5 volte il tasso di interesse da ottobre 2010 ed era pronta a farlo di nuovo, ma è probabile che ora lo rinvii per non rischiare eccessivi contraccolpi sugli investimenti. Anche perché l’aumento del costo del denaro, se ha avuto esiti incerti sull’inflazione, ha con certezza colpito le piccole aziende private, che costituiscono una buona parte della ricchezza cinese: hanno difficoltà a reperire nuovo credito, ma hanno costi maggiori per salari e materie prime.
Da mesi i leader cinesi hanno indicato il controllo dei prezzi come la principale priorità e, oltre ad alzare il costo del denaro, hanno anche cercato di contenere i nuovi finanziamenti bancari, per evitare un surplus di denaro circolante in buona parte usato per operazioni speculative. A giugno il premier Wen Jiabao si era detto “fiducioso” che l’inflazione fosse sotto controllo, convinzione condivisa da molti esperti, ma smentita da questo dato. Peraltro molti stimano che la produzione industriale abbia avuto una contrazione a luglio, seppure non si hanno ancora i dati ufficiali, per cui si teme che ogni misura antiinflattiva possa anche colpire la crescita economica già in fase calante.
Analisti osservano che la crisi mondiale ha pesanti ricadute anche sul modello di sviluppo cinese, da sempre basato sul continuo aumento delle esportazioni, ma che da tempo tutti, compreso il premier Wen, ritengono ormai “sbilanciato, instabile e insostenibile”. Questo ha portato Pechino a trascurare l’aumento del reddito dei ceti medio e basso e il consumo interno, favorendo le grandi imprese e le ditte statali. Ma ora si prevede una contrazione delle esportazioni cinesi specie verso Stati Uniti ed Europa, suoi principali mercati. Le minori esportazioni non potrebbero essere compensate da un aumento dei consumi interni, con le famiglie che vedono una parte crescente del reddito assorbita dalle esigenze base come gli alimenti.
Esperti ritengono che, se l’inflazione continuasse a crescere, il governo sarebbe costretto a rivedere la propria politica economica in modo da favorire un aumento dei consumi. Finora le misure di stimolo sono state invece dirette a favorire gli investimenti, con vantaggio soprattutto per le grandi imprese, anzitutto statali.
Tang Yunfei, di Founder Securities, osserva che “è tempo che Pechino annunci al mondo che tenterà di nuovo di stimolare la domanda domestica”. Ad esempio consentendo un riapprezzamento dello yuan, con conseguente minor prezzo interno per i prodotti esteri.
Il governo deve comunque agire in modo deciso e rapido, anche per il timore che l’aumento dei prezzi porti a maggiori disordini sociali: secondo esperti, in Cina nel 2010 ci sono state oltre 180mila proteste di massa, soprattutto per motivi economici quali la diffusa corruzione, gli espropri di terre e il continuo aumento dei prezzi dei generi alimentari.
Gli alimenti-base della cucina cinese crescono senza limiti: a luglio il prezzo della carne di maiale è aumentato del 56,7%, le uova del 19,7%, la verdura fresca del 7,6%. Peraltro gli aumenti avvengono all’origine e i venditori al dettaglio lamentano che i loro guadagni diminuiscono di continuo, per le minori vendite e per la necessità di erodere il ricavo per restare competitivi.
Inoltre l’attuale difficoltà globale dei mercati finanziari sconsiglia l’adozione degli usuali strumenti di intervento del governo. La centrale Banca di Cina ha aumentato 5 volte il tasso di interesse da ottobre 2010 ed era pronta a farlo di nuovo, ma è probabile che ora lo rinvii per non rischiare eccessivi contraccolpi sugli investimenti. Anche perché l’aumento del costo del denaro, se ha avuto esiti incerti sull’inflazione, ha con certezza colpito le piccole aziende private, che costituiscono una buona parte della ricchezza cinese: hanno difficoltà a reperire nuovo credito, ma hanno costi maggiori per salari e materie prime.
Da mesi i leader cinesi hanno indicato il controllo dei prezzi come la principale priorità e, oltre ad alzare il costo del denaro, hanno anche cercato di contenere i nuovi finanziamenti bancari, per evitare un surplus di denaro circolante in buona parte usato per operazioni speculative. A giugno il premier Wen Jiabao si era detto “fiducioso” che l’inflazione fosse sotto controllo, convinzione condivisa da molti esperti, ma smentita da questo dato. Peraltro molti stimano che la produzione industriale abbia avuto una contrazione a luglio, seppure non si hanno ancora i dati ufficiali, per cui si teme che ogni misura antiinflattiva possa anche colpire la crescita economica già in fase calante.
Analisti osservano che la crisi mondiale ha pesanti ricadute anche sul modello di sviluppo cinese, da sempre basato sul continuo aumento delle esportazioni, ma che da tempo tutti, compreso il premier Wen, ritengono ormai “sbilanciato, instabile e insostenibile”. Questo ha portato Pechino a trascurare l’aumento del reddito dei ceti medio e basso e il consumo interno, favorendo le grandi imprese e le ditte statali. Ma ora si prevede una contrazione delle esportazioni cinesi specie verso Stati Uniti ed Europa, suoi principali mercati. Le minori esportazioni non potrebbero essere compensate da un aumento dei consumi interni, con le famiglie che vedono una parte crescente del reddito assorbita dalle esigenze base come gli alimenti.
Esperti ritengono che, se l’inflazione continuasse a crescere, il governo sarebbe costretto a rivedere la propria politica economica in modo da favorire un aumento dei consumi. Finora le misure di stimolo sono state invece dirette a favorire gli investimenti, con vantaggio soprattutto per le grandi imprese, anzitutto statali.
Tang Yunfei, di Founder Securities, osserva che “è tempo che Pechino annunci al mondo che tenterà di nuovo di stimolare la domanda domestica”. Ad esempio consentendo un riapprezzamento dello yuan, con conseguente minor prezzo interno per i prodotti esteri.
Il governo deve comunque agire in modo deciso e rapido, anche per il timore che l’aumento dei prezzi porti a maggiori disordini sociali: secondo esperti, in Cina nel 2010 ci sono state oltre 180mila proteste di massa, soprattutto per motivi economici quali la diffusa corruzione, gli espropri di terre e il continuo aumento dei prezzi dei generi alimentari.
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