India, leader cristiano: Libertà religiosa, un bene da difendere e non solo da affermare
Mumbai (AsiaNews) - "Libertà religiosa non è escludere una religione o un credo dalle nostre comunità, né promuovere una fede in particolare, ma creare un ambiente favorevole allo sviluppo di società democratiche, pacifiche e pluraliste, in cui gli individui possono pensare, cercare, dubitare e credere in modo libero. E dove ognuno può manifestare le proprie convinzioni più intime da solo o insieme ad altri". È quanto afferma ad AsiaNews Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), commentando le nuove linee guida sulla libertà religiosa pubblicate dall'Unione Europea (Ue) il 25 giugno scorso.
La diffusione del documento è un'occasione, anche per i Paesi di altri continenti, per riflettere sullo stato della libertà di religione nella propria comunità. E l'India, nota il leader cristiano, "essendo la più grande democrazia pluralistica al mondo deve concentrarsi sulle proprie minoranze religiose".
In materia di libertà di culto il Paese vive una doppia condizione. Da un lato è la culla di quattro grandi religioni: induismo, giainismo, buddismo e sikhismo. Oggi la maggioranza della popolazione è indù (80%), ma l'islam è la più grande minoranza del Paese (la comunità musulmana indiana è la terza al mondo per grandezza, ndr) e i cristiani sono più di 25 milioni. E la Costituzione garantisce la libertà di culto come diritto fondamentale di ogni cittadino.
D'altro canto, più volte - anche nel passato recente - è stata teatro di violenze di matrice religiosa su larga scala: è accaduto nel 1992-1993, con gli scontri tra indù e musulmani a Mumbai; nel 2002 con i massacri del Gujarat, sempre tra indù e musulmani; nel 2008, con i pogrom anticristiani dell'Orissa, perpetrati da fondamentalisti indù.
Anche se l'ultimo episodio di violenza su larga scala risale al 2008, sottolinea Sajan George, "continuano ad avvenire episodi di intimidazione, persecuzione e atti di violenza contro singoli e piccole comunità. Questo accade in particolare contro la minoranza cristiana, in quegli Stati che prevedono leggi anticonversione". Sulla carta, queste leggi proibiscono le conversioni che avvengono "tramite forza, coercizione o frode", e permettono così al governo di indagare. Di fatto, esse vengono applicate solo nei casi di indù che passano a un'altra religione. Dalla loro attuazione, le conversioni sono diminuite. In India sono sette gli Stati che prevedono leggi anti-conversione: Orissa, Madhya Pradesh, Chhattisgarh, Arunachal Pradesh, Gujarat, Rajasthan e Himanachal Pradesh.
Questo "si spiega con una debolezza da parte delle autorità. Se il governo centrale rispetta la libertà religiosa sia con la legge che con la pratica, a livello statale non avviene lo stesso, anche perché tra le diverse comunità non c'è uniformità legislativa per quanto riguarda matrimoni, divorzi, adozioni ed eredità".
Insieme a ciò bisogna considerare quegli Stati guidati dal Bharatiya Janata Party (Bjp, partito ultranazionalista indù) e in cui c'è una forte presenza delle organizzazioni che fanno parte del Sangh Parivar (movimento ultranazionalista indù), come la Rashtriya Sawayamsevak Sangh (Rss). "In pubblico - nota il presidente del Gcic - sia il Bjp che queste formazioni dichiarano di rispettare e tollerare gli altri gruppi religiosi. Tuttavia, la Rss si oppone alle conversioni dall'induismo a un'altra fede e sostiene che tutti i cittadini, indipendentemente dal loro credo, dovrebbero seguire i valori culturali dell'induismo, in quanto coincidono con i valori del Paese".
Dinanzi a una situazione così complessa, secondo il leader cristiano "il governo centrale e i singoli Stati indiani devono seguire lo spirito promosso dalle linee guida dell'Unione Europea, per permettere a tutte le sezioni della società di godere dei frutti della libertà sancita dalla nostra Costituzione".