06/03/2009, 00.00
TIBET - CINA
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In Tibet c’è la legge marziale di fatto, l’esercito è pronto a una violenta repressione

di Nirmala Carvalho
Leader pro-Tibet denuncia ad AsiaNews l’imponente schieramento di soldati, pronti a scatenarsi contro qualsiasi protesta, anche verbale. I tibetani mostrano di non avere paura. E’ elevato il rischio di una catastrofe, se non interverrà la comunità mondiale.

Dharamsala (AsiaNews) – “Lo spiegamento provocatorio dei soldati cinesi intorno ai monasteri tibetani aumenta al massimo il rischio [di proteste] in Tibet per il 50° anniversario della rivolta tibetana [contro la dominazione cinese] e della fuga in esilio del Dalai Lama”, che cadono questo mese. Stephanie Bridgen, direttrice del gruppo Free Tibet, spiega ad AsiaNews il forte rischio di disordini in Tibet causato proprio dalla repressione cinese, e lancia un appello al mondo.

“Le forze paramilitari cinesi – prosegue – hanno già mostrato che sono pronte a sparare impunemente contro i dimostranti tibetani”.

Il 27 febbraio la polizia ha sparato contro il monaco Tapey del monastero di Kirti nella contea di Aba (Sichuan) che si era dato fuoco per protesta contro il divieto di celebrare feste religiose. Solo ieri Xinhua ha confermato l’identità dicendo che egli è “fuori pericolo” ed è stato trasferito a un ospedale a Chengdu.  Pechino nega che gli abbiano sparato. Da allora, nessun conoscente ha potuto vederlo.

La Cina da oltre un mese ha schierato decine di migliaia di uomini in Tibet e nelle zone tibetane di Sichuan, Qinghai e Gansu e reprime con carcere e pestaggi ogni minima protesta, anche solo verbale. Nella zona vige una legge marziale “di fatto” ed è vietata agli stranieri. Giornalisti esteri, entrati di nascosto, hanno potuto vedere il massiccio spiegamento di soldati e polizia, prima di essere fermati e cacciati. Sembra imminente una guerra civile: convogli militari che pattugliano le strade e controlli capillari sulle auto civili; i soldati hanno creato postazioni fortificate con pile di sacchi di sabbia al centro delle città; a Lhasa c’è il coprifuoco.

La repressione cinese non ha avuto pause dalle proteste esplose nel marzo 2008, represse nel sangue con almeno 220 morti, 1.300 feriti e circa 7mila arrestati, secondo il governo tibetano in esilio.

Bridgen conferma che “ci sono tutte le condizioni per una catastrofe, anche perché i tibetani si mostrano determinati a protestare nonostante la repressione cinese”.

Nelle settimane scorse ci sono state frequenti proteste non violente, specie di monaci tibetani. Molti sono stati poi arrestati. Radio Free Asia riferisce che ieri davanti al commissariato di Kardze hanno protestato dapprima la monaca Pema Yangdzom e, più tardi, una ragazza. La polizia le ha subito portate via.

Bridgen lancia un appello ai leader mondiali: essi “debbono rompere il loro silenzio sul Tibet e rispondere alla recente richiesta del governo tibetano in esilio per un intervento urgente, se vogliono impedire una repressione sanguinosa contro i dimostranti tibetani come nel 2008”.

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