Il tribunale internazionale: per il governo un bene, per l’opposizione una minaccia
Beirut (AsiaNews) – Sono ripresi dalla notte scorsa gli scontri nel campo di Nahr al-Bared tra l’esercito libanese ed i terroristi di Fatah al-Islam. Per il primo ministro Fouad Siniora il gruppo “è collegato all’intelligence siriana” e fa parte delle “minacce” con le quali Damasco cerca di “intimidire” i libanesi per bloccare l’istituzione, decisa dall’Onu, del tribunale internazionale incaricato di giudicare i responsabili dell’assassinio dell’ex primo ministro Rafic Hariri.
La decisione presa dal Consiglio di sicurezza la notte del 30 maggio è in effetti oggetto di opposte valutazioni, tra chi, come i siriani ed i loro alleati, la giudica “pericoloso” per il Libano ed una “violazione” della sua sovranità e chi, come la maggioranza parlamentare – ma anche commentatori di altri Paesi arabi – lo ritiene un modo per bloccare la violenza politica nel Paese, oltre che per veder condannati i responsabili dei tanti attentati politici commessi negli ultimi anni. Così, per il capo delle Forze libanesi, Samire Geagea, il tribunale è nell’interesse di tutti i libanesi e non di una parte, e per l’ex presidente Amin Gemayel “è un avvenimento importante che avrebbe dovuto suscitare gioia, dopo tutte le tragedie che abbiamo traversato e tutti i martiri che sono caduti per la libertà e l’indipendenza”.
A Damasco, invece, Al-Thawra scrive di “politicizzazione dell’inchiesta” e aggiunge che la risoluzione dell’Onu “riduce la sovranità libanese, accresce la divisione ed ha un impatto sull’unità nazionale”. Dal canto suo, Teshreen sostiene che si tratta di “una decisione israelo-americana, che non può essere vista come espressione della volontà internazionale”, e che “può avere pericolose ripercussioni sull’unità nazionale libanese”.
Immediata eco di tali affermazioni si trova nelle dichiarazioni di Hezbollah - “violazione della sovranità libanese” e “dono all’amministrazione americana” – che nega anche “legittimità nazionale e internazionale” del tribunale e del presidente del Parlamento, Nabih Berri, - “è stata violata la Costituzione libanese” – che da mesi si rifiuta di convocare la Camera, che dovrebbe votare l’approvazione del tribunale. Critiche più caute in alcune affermazioni del presidente della Repubblica, Emile Lahoud - la decisione di creare il tribunale “ha suscitato in una gran parte dei libanesi ed anche in un Paese fratello e amico, timori, specialmente quello di vedere il tribunale lavorare in direzione di obiettivi diversi da quelli che è destinato a raggiungere” - e del generale Michel Aoun che da un lato ha sostenuto che “si teme che questo tribunale sia strumentalizzato politicamente. Ma se funziona come un tribunale che rende giustizia, credo che avrà il consenso di tutti, in Libano”, dall’altro ha affermato di “non vedere, finora, nell’inchiesta un’accusa contro la Siria” e che “si possano alla fine indicare degli accusati”.
In realtà, il lavoro della Commissione internazionale di inchiesta ha finora indicato, in Libano, nove accusati, che negano ogni addebito, quattro dei quali sono in prigione. Si tratta degli uomini che, durante l’occupazione siriana del Paese, occupavano posti-chiave nella sicurezza: l’ex responsabile della sicurezza generale, il generale Jamil al-Sayed, il capo della sicurezza interna, generale Ali al-Hage, il direttore dell’intelligence militare, generale Raymond Azar e il capo della Guardia presidenziale, generale Mustafa Hamdan. Gli altri cinque, uno dei quali siriano, sono ritenuti direttamente coinvolti nell’esecuzione dell’attentato. Pochi minuti prima dell’attentato – che causò altre 22 vittime - uno di loro avrebbe chiamato col suo telefonino Lahoud, che nega.
La Commissione ha indicato tra i sospetti anche cinque siriani – nessuno dei quali è stato imprigionato da Damasco – tra i quali anche il generale Rustom Ghazaleh, già responsabile dell’intelligence militare siriana in Libano.