Il tacito consenso della Cina alle proteste antigiapponesi
Circa 40 mila persone hanno manifestato in diverse città contro il "revisionismo" storico portato avanti da Tokyo. Dietro le dimostrazioni: i timori della Cina per il seggio permanente di Tokyo all'Onu e l'appoggio nipponico a Taiwan.
Pechino (AsiaNews) Secondo analisti cinesi, le violente manifestazioni antigiapponesi verificatesi in Cina nel fine settimana sono avvenute con il tacito consenso del governo. Tra sabato e domenica violente dimostrazioni anti-giapponesi partite da Pechino si sono estese a macchia d'olio nella provincia meridionale del Guangdong. In un paese controllato come la Cina è difficile pensare che manifestazioni popolari avvengano senza l'approvazione governativa. I manifestanti hanno preso di mira attività commerciali e sedi diplomatiche, protestando contro il "revisionismo" giapponese, che vuole minimizzare "le atrocità" commesse durante l'occupazione della Cina (1931 al 1945).
A Pechino, il 9 aprile, 20 mila persone hanno dimostrato contro la sede diplomatica giapponese. La manifestazione è stata la più numerosa, dopo quelle conclusesi con la repressione di piazza Tiananmen nel 1989.
Ieri altre 20 mila persone, incitando al boicottaggio dei prodotti giapponesi, hanno sfilato in due città del sud, Guangzhou e Shenzhen. Nella prima i manifestanti hanno lanciato vernice e bottiglie contro il consolato giapponese. La stessa rabbia si è diretta contro ristoranti e negozi giapponesi a Shenzhen, grande città industriale vicina a Hong Kong. I 10 mila dimostranti, fra i quali molti studenti, si sono fermati davanti a un supermercato giapponese, Jusco, urlando slogan e bruciando bandiere giapponesi.
Ieri a Tokyo il ministro degli Esteri Nobutaka Machimura ha convocato l'ambasciatore cinese, Wang Yi, chiedendo "scuse e risarcimenti" per i danni subiti dai compatrioti. Le autorità cinesi, infatti, pur invitando alla calma i manifestanti, non hanno vietato i cortei. Sabato il vice ministro degli Esteri Qiao Zonghuai, a nome del governo cinese, aveva assicurato l'ambasciatore nipponico, Koresighe Anami, dell'impegno di Pechino per impedire gesti di violenza.
Due le cause a monte delle proteste cinesi. La prima, la più apparente: l'approvazione del Giappone di un libro di testo scolastico, in cui si minimizzano le brutalità commesse dal paese durante la II Guerra mondiale e per le quali Tokyo non ha mai pronunciato scuse ufficiali.
La seconda è legata a una questione più profonda: la richiesta del Giappone per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza Onu. Secondo alcuni analisti dell'Estremo oriente la Cina sfrutterebbe il risentimento popolare per cercare di ottenere garanzie dal Giappone in cambio del suo voto in sede di Consiglio. Il seggio permanente a Tokyo è visto da Pechino come una minaccia: esso conferirebbe al Giappone il potere di veto su possibili risoluzioni legate a delicate questioni di mutuo interesse come Taiwan. Leader politici cinesi sospettano che Tokyo lavori a fianco degli Stati Uniti a sostegno del governo di Taipei. Il sospetto si è fatto più reale quando un patto di sicurezza Giappone-Usa ha menzionato per la prima volta Taiwan tra i problemi comuni. Pechino ha sempre ribadito che quella di Taiwan è una questione di politica interna.
Intanto è attesa in Cina la visita di Nobutaka Machimura, ministro degli Esteri giapponese, che dovrebbe discutere "un numero di questioni bilaterali e internazionali". (MA)