Il sangue del Tibet sulla Pechino dei Giochi
di Bernardo Cervellera
A pochi mesi dalle Olimpiadi di Pechino, il governo cinese in allerta sopprime con carri armati e soldati le richieste disperate dei giovani tibetani. La Cina raccoglie quello che ha seminato: in quasi 50 anni, non ha mai dato alcuna speranza alla popolazione del Tibet, ampliando invece il controllo e il genocidio.
Roma (AsiaNews) - Dieci morti e i carri armati a Lhasa sono la risposta cinese al “terrorismo” tibetano, che riesce ad esprimersi solo con proteste, marce di monaci e civili, negozi in fiamme, auto bruciate.
A quasi 50 anni dalla rivolta repressa nel sangue, che ha portato all’esilio il Dalai Lama e decine di migliaia di tibetani, una nuova fiammata rischia di far divampare un incendio violento. Il tutto a pochi mesi dalle Olimpiadi, che Pechino sbandiera come i Giochi della pace e della fraternità universale.
Sono proprio le Olimpiadi ad aver acceso la scintilla. Atleti tibetani hanno domandato di partecipare alle Olimpiadi sotto la bandiera del Tibet, ma la Cina lo ha negato. Per le cerimonie d’inizio e fine dei Giochi sono previste performance di danzatori tibetani sorridenti sotto la bandiera cinese, mentre a Lhasa e nel Tibet la popolazione rischia il genocidio.
Un genocidio anzitutto economico: le alte terre himalayane, ricche di minerali, sono disseminate di scienziati cinesi che ricercano miniere di rame, uranio e alluminio, mentre ai locali non resta che l’abbandono dei loro pascoli e il lavoro nelle fabbriche cinesi. Il turismo, con il suo strascico di alberghi, karaoke, prostituzione, è tutto in mano ai milioni di coloni cinesi, violentando la cultura ancestrale.
La Cina dice che tutto questo serve per lo sviluppo della popolazione. Forse è anche vero, se non ci fosse anche il genocidio culturale e religioso: nessun insegnamento della religione e della lingua tibetane; nessuna esibizione o lode al Dalai Lama, controllo di ferro sui monasteri e i civili grazie allo spiegamento di oltre 100 mila soldati cinesi.
Nel ’95 il controllo di Pechino è giunto fino a determinare il “vero” Panchen Lama, eliminando quello riconosciuto dal Dalai Lama. E dallo scorso settembre, tutte le reincarnazioni dei buddha (fra cui quella del Dalai Lama stesso, ormai 70enne), per essere “vere”, devono avere l’approvazione del Partito.
Le proteste di questi giorni, portate avanti soprattutto da giovani monaci e civili sono il frutto della disperazione davanti al lento morire di un popolo impotente. Tale disperazione è creata anche da Pechino. Per tutti questi anni il Dalai Lama ha proposto alla Cina una soluzione pacifica, con un’autonomia religiosa per il Tibet, rinunciando all’indipendenza.
Vi sono stati anche incontri fra rappresentanti del governo tibetano in esilio e le autorità del governo cinese. Ma quest’ultimo, alla fine, ha sempre sbattuto la porta in faccia, sospettando chissà quali mire indipendentiste nell’Oceano di Saggezza (un altro nome del Dalai Lama), che ormai desidera solo essere un leader religioso.
La mancanza di segni di speranza porta a gesti disperati. Temiamo che la situazione a Lhasa diventi sempre più incandescente o spinga la Cina a soluzioni estreme, con la scusa di combattere “il terrorismo separatista”. Per la Cina è il momento della verità: dopo essersi preparata a diventare un Paese moderno per le Olimpiadi, deve mostrare di essere tale anche nel risolvere crisi sociali e di libertà. L’apertura di un dialogo col Dalai Lama sarebbe il passo da fare. Sembra quasi una nemesi storica che a decidere questo debba essere il presidente Hu Jintao.
Nel marzo ’89 vi è stata un’ennesima rivolta in Tibet, conclusa con un massacro e con la legge marziale, decretata proprio da Hu Jintao, a quel tempo segretario del Partito a Lhasa. Pochi mesi dopo vi è stato il grande massacro di Tiananmen a Pechino. Ma dopo quasi 20 anni Hu Jintao si trova davanti agi stessi problemi. La repressione non ha risolto nulla: è tempo per un altro tipo di soluzione.
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