Il ritiro del Dalai Lama, “atto d’amore per il Tibet”
di Nirmala Carvalho
Il leader del buddismo tibetano ha annunciato ieri che è pronto ad abbandonare la vita politica e ha lanciato un processo di democratizzazione per la diaspora in esilio in India. Per la Cina si tratta di “un trucco”, mentre ad AsiaNews il primo ministro del governo tibetano spiega: “Lo ha deciso per tutti noi, ed è un atto di rinuncia che dà un esempio alla Cina e al mondo”.
Dharamsala (AsiaNews) - “Ho visto il Dalai Lama proprio ieri, e l’ho trovato rilassato e soddisfatto. Era da molto tempo che ragionava su questo annuncio, sul suo ritiro dalla vita pubblica, ed ora che è riuscito a farlo è contento”. Samdhong Rinpoche, Kalon Tripa (primo ministro) del governo tibetano in esilio, commenta ad AsiaNews la decisione annunciata ieri dal leader del buddismo tibetano: ritiro totale dalla vita pubblica e avvio di un processo politico di democratizzazione per la diaspora tibetana e per il Tibet intero.
Al momento, dice il politico, “non ho una visione precisa della situazione: dobbiamo sederci, discutere e deliberare con logica e razionalità. Ma prima di tutto va sottolineato che non cambierà nulla nel campo religioso e spirituale, dove Sua Santità rimane l’autorità indiscussa. Questo è evidente e non è possibile pensare altrimenti. I tibetani continueranno a guidare i settori del buddismo tibetano così come le altre nazionalità avranno la leadership dei propri settori: tutti devono capire che la questione spirituale e religiosa non ha nulla a che vedere con la politica”.
Certo, aggiunge, “esistono dei problemi ‘tecnici’ che vanno risolti: dobbiamo trovare il modo di applicare il ruolo del Dalai Lama alla democrazia, proteggendo sempre gli interessi del popolo. Sarà un processo lungo e difficile, molto intenso, in cui dovremo produrre un approccio particolare alla questione”. Sulla questione è intervenuto anche il governo cinese, ovviamente, che ha definito la scelta “un trucco della cricca del Dalai Lama” e l’ha accusato di “avere trame oscure e indipendentiste per la regione tibetana”, invasa da Mao Zedong nel 1951 e da allora sotto il dominio comunista.
Le accuse della Cina, spiega Rinpoche, “sono ripetitive: Pechino troverà sempre qualche accusa o qualche aggettivo infamante per il Dalai Lama. Ora dicono che il ritiro del nostro leader non è sincero: continueranno a farlo, perché non capiscono e non voglio capire. Il Dalai Lama vuole ritirarsi dalla vita politica per un motivo molto semplice: sa che la leadership non può e non deve essere confinata ad una singola persona”.
Personalmente, “ritengo che non ci sia differenza anche a partecipare alla vita politica, ma Sua Santità è stato molto chiaro: vuole un processo di democratizzazione reale, in cui la popolazione possa prendersi le proprie responsabilità per il benessere comune”. Il ritiro del Dalai Lama dalla vita pubblica, conclude, “è stato deciso per tutto il Tibet, non per la sua persona. L’avarizia è l’epitome di ogni miseria, e la rinuncia è l’unico antidoto. È un atto di amore per tutti noi e un grande segnale per il mondo e per la Cina”.
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