09/01/2007, 00.00
VATICANO – ISRAELE – PALESTINA
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Il realismo politico di Benedetto XVI sul problema Israele-Palestina

di Arieh Cohen
Ieri al corpo diplomatico il papa ha parlato di “approccio globale” premendo per una Conferenza internazionale di pace, che comprenda anche la Siria. Il Vaticano agisce come forza trainante e anche Olmert vi sembra interessato. Un’analisi del nostro corrispondente.
Tel Aviv (AsiaNews) - “Le soluzioni militari non conducono a nulla”, ha ripetuto ieri in Vaticano Benedetto XVI all’assemblea dei diplomatici accreditati presso la Santa Sede, riferendosi in modo diretto alle tensioni tra Israele e Libano, ma anche – com’è evidente dal contesto – a quelle tra israeliani e palestinesi. Egli ha pure  ripetuto l’esigenza che israeliani e palestinesi possano  godere, pacificamente, di pari dignità e di pari diritti, e che come “gli Israeliani hanno il diritto di vivere in pace nel loro Stato”, così pure “i Palestinesi hanno il diritto ad una patria libera e sovrana”. Queste affermazioni che sono oggi largamente - quasi universalmente - proclamate dalla comunità internazionale, sono state sempre e con coerenza sostenute dalla Santa Sede, anche ben prima che diventassero luoghi comuni. Se ciò è avvenuto, la storia non potrà ignorare questo contributo.
 
Quanto alla situazione concreta, all’apparenza siamo ancora lontani da tale felice stato di cose. Ma  nell’intento di incoraggiare tutti gli interessati a proseguire nel cammino che porta alla pace, il pontefice ha creduto bene prendere atto dei “segni positivi” che egli vede “registrati nel corso delle ultime settimane” nei rapporti “tra Israeliani e Palestinesi”. E perché la speranza che essi “si consolidino” non si tramuti in semplici illusioni, Benedetto XVI ammonisce però che “non è possibile accontentarsi di soluzioni parziali o unilaterali”, ed è invece richiesto “un approccio globale, che non escluda nessuno dalla ricerca di una soluzione negoziata e che tenga conto delle aspirazioni e degli interessi legittimi dei diversi popoli coinvolti”.
 
In questa precisa osservazione del papa si può vedere un contributo diretto e concreto ai dibattiti in corso sul metodo per arrivare alla pace in Terra Santa e dintorni. Mentre i grandi obiettivi, pace e sicurezza per due Stati nazionali – quello israeliano, ormai in essere da quasi 60 anni, e quello palestinese, ancora da erigere – paiono da tutti condivisi, l’accordo sembra ancora lontano sulle vie per arrivarci. Il relativo dibattito è interno a Israele, ma anche all’ “Occidente” - che sente una vocazione particolare (storicamente fondata) di facilitare la pace in Medio Oriente. Il dibattito è presente anche all’interno della stessa Unione Europea: Francia, Spagna e Italia hanno puntato su una rinnovata Conferenza di pace (che offra precisamente “un approccio globale”); altri Paesi europei non si sono ancora pronunciati, altri ancora – in Europa e oltre – sembrano votati ad un “accanimento terapeutico” che tenga in vita, almeno formalmente, la famosa “Road Map” che, oltre ad essere già fallita, si limita a prevedere unicamente una graduale pacificazione delle relazioni tra israeliani e palestinesi, alquanto avulsa dall’inquietante - anzi esplosivo - contesto regionale.
 
Il dibattito non è metafisico, e neppure semplicemente “etico”: si tratta invece anzitutto di fattibilità, di realismo geopolitico. É proprio possibile prevedere una pace israelo-palestinese che non sia accompagnata dalla pace tra Israele e Siria, Israele e Libano? Non è invece quasi certo che, più vi sono “segni positivi” in campo puramente bilaterale (Israele-Palestina), più gli altri, temendo di rimanere “esclusi”, intensificheranno gli sforzi per fermarli, seminando zizzania (in campo palestinese) o lanciando aggressioni (come quella di Hezbollah contro Israele il 12 luglio scorso), con conseguenze particolarmente pesanti (come l’allargamento ad oltranza di quello stesso scontro)?
E poi, si può pensare di giungere alla pace tra israeliani e palestinesi senza un’ impresa davvero globale, con la partecipazione dei Paesi direttamente coinvolti, che risolva la questione delle centinaia di migliaia di profughi palestinesi in Siria e – specialmente – in Libano, dove vivono sempre in condizioni particolarmente difficili?
 
In concreto il dibattito attuale verte sulla questione se coinvolgere o meno la Siria nei negoziati di pace (il Libano, è certo, seguirà comunque la Siria, e tra di esso e Israele le questioni da risolvere in sede di negoziato di pace sono in ogni caso di minima entità). Più volte il governo siriano ha dichiarato di recente la sua volontà di riprendere i negoziati di pace con Israele. Ufficialmente il governo israeliano non è favorevole, ma all’interno dell’establishment civile, militare e mediatico, ci sono forti correnti di pensiero in senso diverso, e la discussione è ancora in corso.
 
Se si sceglie alla fine l’ “approccio globale”, caldeggiato dal Papa, le modalità non sarebbero tutte da inventare: esse si possono trovare nella “Conferenza di Madrid” voluta a suo tempo, nel 1991, dal presidente statunitense George Bush, e alla quale aderirono per l’appunto la Siria e il Libano, oltre agli israeliani e ai palestinesi. Essa mirava a produrre una serie di trattati di pace bilaterali, sostenuti e rafforzati da un’altra serie di trattati, multilaterali, con il più ampio sostegno della comunità internazionale.
 
Se si riconvoca la Conferenza di Madrid (o un’altra simile), essa sarebbe ancora più rafforzata dalla storica risoluzione del vertice di Beirut 2002 della Lega Araba, che offrì formalmente di normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico di tutti i Paesi arabi. Tra i “segni positivi” dei tempi recenti si dovrebbe senz’altro annoverare il riferimento positivo a questa iniziativa araba fatto dal Premier israeliano Olmert in un discorso pubblico, rompendo con la linea seguita da Israele fino ad allora di non attribuirle alcuna importanza. Proprio in quel periodo Olmert si è incontrato, in Giordania, con un personaggio-chiave del governo saudita, Stato autore e promotore dell’iniziativa del 2002 (da allora più volte confermata). La notizia dell’incontro è stata ritualmente smentita, ma di fatto non c’è chi di essa abbia dubitato.
 
E’ certo che l’ “approccio globale” comporta difficoltà enormi, rischi e complicazioni per la grande complessità degli argomenti da trattare e risolvere, e la drammaticità dei cambiamenti sul terreno, che esso richiede, ma se ne può fare a meno? Il Papa sembra rispondere di no: delle “soluzioni parziali”, egli ha dichiarato, non ci si può “accontentare”. Per arrivare alla pace si richiede proprio quell’ “approccio globale”, che “non escluda” nessuno, e che salvaguardi, mediante “soluzione negoziata” gli “interessi legittimi dei diversi popoli coinvolti”. Non utopia, ma realismo, non realpolitik (nel senso deteriore), ma realismo etico e – non meno – “geopolitico”.
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