Il petrolio irakeno nella guerra diplomatica fra Teheran e Washington
È durata due giorni l’occupazione di militari iraniani di un pozzo nel sud-est dell’Iraq. Lo sconfinamento pare una mossa del regime degli ayatollah, per aumentare la tensione con la comunità internazionale. E una risposta a Baghdad per la mancata chiusura di un campo che ospita esponenti della resistenza iraniana.
Baghdad (AsiaNews) – Ricatto e provocazione. Continua ad oscillare tra questi due piani la politica del regime iraniano, che nel suo braccio di ferro con la comunità internazionale gioca ormai a rialzo. In questa strategia rientra anche l’“occupazione” di un pozzo petrolifero iracheno da parte di militari iraniani, ritiratisi solo sabato notte dopo 48 ore di alta tensione.
L’episodio
Tutto comincia giovedì sera (17 dicembre), quando una decina di militari e tecnici iraniani entrano in territorio iracheno prendendo possesso di un pozzo nel giacimento petrolifero di al-Fakkah (nella provincia di Maysan, sud-est dell’Iraq) e piantando la bandiera iraniana. Subito le guardie di frontiera e le truppe irachene, di stanza a circa un chilometro dal pozzo, entrano in stato dall’allerta. Per oltre 24 ore sull’accaduto è un rincorrersi di smentite e reticenze, finché il governo iracheno e l’esercito Usa non confermano lo sconfinamento. Teheran ammette l’accaduto solo sabato, ma per il regime di Ahmadinejad non vi è alcuna violazione della sovranità irachena: secondo un accordo in materia di confini risalente al 1975, il pozzo occupato si troverebbe in territorio iraniano.
I precedenti
Baghdad ha reagito inviando rinforzi militari nella zona e chiedendo il ritiro delle forze iraniane, ma auspicando allo stesso tempo una soluzione diplomatica. Gli Usa sono rimasti a guardare e hanno elogiato la linea “misurata” scelta da Baghdad. A detta dello stesso vice presidente iracheno, “fatti di questo genere erano già accaduti nel corso della settimana”. Ma non solo. La politica del saccheggio del petrolio iracheno da parte di Teheran va avanti da tempo, sempre indisturbata.
Esistono indagini del parlamento e del governo di Baghdad sui comportamenti del regime iraniano, che però puntualmente finiscono nell'archivio per “ragioni di Stato”. Le relazioni tra i due Paesi, che negli anni Ottanta hanno combattuto una sanguinosa guerra per otto anni, sono migliorate da quando in Iraq è salito al potere un governo guidato da partiti sciiti dopo la caduta di Saddam. E oggi Teheran è in grado di influenzare fortemente la politica di Baghdad.
I perché
In quest’ottica, si può legare l’“occupazione” del pozzo di Fakkah al fallito tentativo di ottenere dal governo iracheno la chiusura del campo di Ashraf, dove vivono 3.400 membri della resistenza iraniana. In seguito a proteste e mobilitazioni internazionali, il governo del premier al-Maliki non ha potuto rispettare la promessa fatta a Teheran di chiudere il temuto campo entro il 15 dicembre. È possibile, notano analisti iraniani, che come reazione a questa “sconfitta” diplomatica, il regime dei mullah abbia deciso allora di mostrare ancora i muscoli, ricordando al governo iracheno di avere tutte le possibilità di agire militarmente qualora in futuro non venissero eseguiti i suoi ordini.
L’episodio di Fakkah è il culmine di un’escalation di tensione innescata dal regime dei mullah, sempre più nervoso per le quotidiane proteste popolari e le minacce di sanzioni da parte della comunità internazionale. Intenzionato a non mollare, l’Iran continua a scegliere azioni provocatorie e di sfida: dai test di missili a lunga gittata, all’attacco del sito di microblogging Twitter rivendicato da hacker dell’Iranian Cyber Arm; dall’annuncio della sperimentazione di centrifughe di nuova generazione per l’arricchimento dell'uranio, alle ultime dichiarazioni, lo scorso 18 dicembre, di Ahmadinejad: “È la presenza militare americana, il motivo principale delle crisi che viviamo oggi in Medio Oriente”.
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