10/08/2024, 09.00
MONDO RUSSO
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Il nuovo militarismo nel sistema formativo della Russia in guerra

di Stefano Caprio

Per il filosofo Nemtsev la tendenza latente alla violenza diventa la forma decisiva per ritrovare quanto perduto. I civili diventano “quasi-militari”, con addestramento spontaneo individuale e di gruppo. Anche l’abbigliamento nel quotidiano richiama l’esperienza bellica con guanti tattici e ginocchiere di protezione. La guerra contenuto fondamentale della letteratura, arte e cultura russa.

Si è tenuta in questi giorni una grande conferenza on-line dei “Ponti Accademici”, che ha riunito ricercatori e studiosi della storia e della cultura russa da vari Paesi d’Europa sui temi di sociologia e antropologia della società russa, sottoposta a cambiamenti piuttosto radicali in questi anni di guerra. Il filosofo, storico e letterato di Novosibirsk, Mikhail Nemtsev, ha presentato una delle relazioni principali, su “Antropologia del nuovo militarismo russo”, per mostrare le specificità di un atteggiamento aggressivo peraltro molto tradizionale in Russia, sia nei secoli imperiali che nel recente passato sovietico, con l’educazione militarista che sta ora tornando in voga nell’attuale sistema formativo russo.

Nemtsev spiega che dopo una pausa negli anni Novanta, le propensioni al militarismo sono tornate a diffondersi a tutti i livelli soprattutto negli ultimi 15 anni, sia nelle catene produttive dell’industria bellica privata e di Stato, sia nella tendenza a rivedere la storia in modo “alternativo”, ciò che costituisce la base dell’ideologia ormai dominante del “mondo russo” interpretata in diverse varianti e a vari livelli. Una spinta devastante è venuta dal periodo della pandemia di Covid-19, che ha molto alimentato le concezioni cospirologiche, arrivando a considerare le misure sanitarie come vere e proprie azioni militari a cui sottomettersi o da combattere contro un nemico immaginario, ma spesso indicato in forze oscure ed estranee alla Russia, per annientarne la forza spirituale e morale.

Si arriva così a una interpretazione “estetica ed etica” dell’esperienza militare, che si distingue anche dagli archetipi del passato come la liberazione dal giogo tartaro medievale, la riunione delle terre russe contro i torbidi interni ed esterni, la santa alleanza imperiale per dominare l’Europa contro gli invasori, fino alla “lotta per la pace universale” di sapore sovietico. Il militarismo attuale è una “riscoperta dell’identità russa sotto nuova forma”, commenta il filosofo, in cui la tendenza latente alla violenza diventa la forma decisiva per ritrovare tutto quanto si credeva perduto.

In realtà, come spiega Nemtsev, il mondo contemporaneo si basa ormai da oltre tre secoli sulla divisione netta tra “civile” e “militare”: i soldati fanno il loro lavoro e i civili vivono nella loro dimensione, sostenendo e mantenendo l’esercito in modo che esso non s’intrometta negli affari privati delle persone. Questo modello ideale viene ora a cadere in Russia, con l’espansione dell’approccio militare anche nella vita civile, nella propaganda e nelle lezioni scolastiche di addestramento alla guerra, e in generale con un interesse sempre più diffuso tra la gente comune nei confronti della dimensione militare, ritenuta sempre più importante e significativa, su cui investire forze e interessi. I civili non diventano propriamente militari, ma “quasi-militari”, con addestramento spontaneo individuale e di gruppo, formando associazioni di cosacchi e combattenti, o anche solo collezionando una sempre più ampia letteratura sulla storia e sull’arte della guerra.

Questa trasformazione non è esclusiva soltanto della Russia, un fenomeno simile si verifica in modo abbastanza evidente negli Stati Uniti, per non parlare dei tanti Paesi militarizzati dell’Asia, Africa e Sudamerica, mentre l’Europa si mantiene in uno stato di “separazione” pacifica che non desidera intromissioni belliche. In Russia, come negli Usa, diventa invece sempre più attraente l’immagine di sé come combattente, dilettandosi nel tiro a segno e partecipando a corsi di sopravvivenza e di esperienze estreme, oltre alle tante espressioni violente di protesta. I russi amano molto vestirsi da soldati anche nella vita quotidiana, non solo in giacconi mimetici, ma perfino con guanti tattici e ginocchiere di protezione.

Accanto quindi alle politiche aggressive dei leader e dei governi, a livello federale e regionale, si sviluppa sempre più la sub-cultura della guerra a cui tutti aspirano a partecipare. Tutto questo è venuto alla luce in modo clamoroso nel 2014, con l’inizio del conflitto con l’Ucraina e l’annessione della Crimea, con il grido putiniano Krym Naš!, “La Crimea è nostra!” che ha reso esaltante un conflitto fratricida poi dilagato fino a dimensioni globali. Alcuni personaggi hanno identificato clamorosamente questa tendenza bellica “popolare”, come l’eroe della “guerra ibrida” in Ucraina, Strelkov (Igor Girkin, attualmente detenuto nelle prigioni russe), e il creatore della compagnia Wagner, lo scomparso “cuoco di Putin” Evgenij Prigožin, forse il protagonista più amato dalle masse negli ultimi anni. Ora tutti i gruppi di mercenari sono stati riassunti nella nuova concezione del ministero della Difesa, che con la nomina dell’economista Andrej Belousov è diventata la struttura dominante della politica e dell’economia russa, e in qualche modo perfino della religione ortodossa “militante”.

Nemtsev riassume il tutto con la constatazione che “l’interesse militare oggi è presente e sempre più imponente a tutti i livelli della società russa”, al di là dell’uso politico che ne viene fatto dalle strutture di potere. È certamente un fattore importante nel sostegno di massa al regime putiniano, che ha bisogno di contare su persone che raccontino ai loro amici e ai loro figli quanto sia eccitante correre per i boschi con armi automatiche e camuffamenti, lanciarsi col paracadute su obiettivi da assaltare o altre avventure simili, ben più attraenti delle competizioni sportive e lasciando le Olimpiadi al trastullo dei depravati occidentali.

Per almeno due generazioni, dopo le guerre mondiali, si è ragionato a partire dal principio “purché non ci sia più la guerra”, mentre ora si torna a pensare che “non c’è altra soluzione se non la guerra”. Il culto della guerra del resto viene consegnato dalla memoria dei tanti monumenti agli eroi vincitori, in Russia come negli altri Paesi, e Nemtsev ricorda che la guerra è un contenuto fondamentale della letteratura russa, non soltanto in Guerra e Pace di Lev Tolstoj, ma nell’arte e nella cultura di tanti popoli. Egli definisce la guerra come “un elemento fondamentale della vita delle società contemporanee”, a prescindere dalle vittorie o dalle sconfitte del passato; la memoria e i dibattiti sulle guerre passate sono considerati essenziali per definire l’identità nazionale. E oggi la Russia ha fuso questa memoria in un’identificazione con la Grande Guerra patriottica (come viene chiamata la seconda guerra mondiale), trasformata in “culto della Vittoria”, unendo la data del 9 maggio 1945 con quella del 24 febbraio 2022, l’ingresso a Berlino e l’invasione dell’Ucraina.

Perfino la stessa parola “guerra” è stata accantonata e proibita per legge, sostituendola con il concetto mistico di “operazione speciale”, allo stesso tempo militare, politica, economica e religiosa. Viene simbolicamente rappresentata dalla svastica Z, così che esiste ormai soltanto la Z-poesia, Z-letteratura, Z-ortodossia religiosa, e l’espressione pubblica ammessa si condensa nel verbo Zigovat, “fare la Zeta” in ogni dimensione. La società non si oppone a questa nuova dimensione, a parte i pochi dissidenti repressi, avvelenati, uccisi o scambiati con qualche eroe bellico e criminale. Si accetta di vivere in un mondo inedito di conflitti permanenti come nei film di fantascienza, con l’invasione degli alieni sulla terra: sono arrivati i marziani, impareremo a vivere su Marte (il “pianeta della guerra”, del resto).

Il fatto è, conclude Nemtsev, che “il popolo è una comunità di persone che in un territorio determinato affrontano insieme le questioni della vita e della morte”. Il popolo è composto da quelli da cui si nasce, quelli con cui si va insieme a scuola, quelli con cui si generano nuovi figli e si costruiscono le famiglie, e quelli che infine si seppelliscono. Il filosofo cita un detto russo, na miru i smert krasna, “al mondo anche la morte è meravigliosa”. Il culto della guerra è culto della morte, che deve essere dignitosa e onorevole, piena di valori positivi. La guerra è il contenuto finale dei “valori morali e spirituali tradizionali”: si vive per una morte gloriosa, difendere la Patria è la via principale verso la santità, come ripete il patriarca Kirill con i suoi metropoliti, una versione estrema dell’imitazione di Cristo e dei martiri.

Non importa chi è rimasto e chi se n’è andato, chi combatte e chi cerca di fuggire, il patriottismo bellico definisce i confini dell’anima ben prima di quelli geografici e militari. Thomas Mann, uno dei più grandi scrittori tedeschi, scriveva nel 1946 che “non ho intenzione di tornare in Germania, come farò a vivere con chi ha sostenuto per anni il nazismo?”. È una domanda che riguarda anzitutto ogni persona: come vivere nella cultura della morte, e come scegliere di riscoprire la vita, assumendosi le proprie responsabilità e chiedendo perdono, per ricostruire lo Stato, la società, la Russia e il mondo che ci aspetta dopo la guerra.

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