Il Libano deve restare neutrale sulla rivoluzione siriana
di Fady Noun
E’ nato un nuovo gruppo politico, che trae ispirazione dalle posizioni del patriarcato maronita, e che si distanzia sia dai sostenitori di Damasco che dai nemici del regime di Assad. Il patriarca cerca di coinvolgere nel dialogo le grandi istituzioni regionali sunnite e sciite.
Beirut (AsiaNews) - Quella che si chiama la “primavera araba” ha invaso il Libano, politicamente e culturalmente. Non passa giorno senza che la sfida posta da questa mutazione politica non sia dibattuta in un forum. Siamo a un punto in cui tutte le questioni politiche interne sono più o meno legate alla situazione in Siria e all’avvenire dei cristiani in Medio oriente.
La creazione l’8 gennaio, ad Harissa, del “Rassemblement des chrétiens indépendants” è un paradosso, Se il termine “indipendente” si adatta bene ad alcune, rare personalità che ne fanno parte, la maggior parte degli altri sono segnati in maniera forte dal loro passato politico e dal collegamento con un regime siriano in declino. A prima vista questo gruppo che cerca apertamente di rompere l’allineamento fra i movimenti del 14 e dell’8 marzo (il primo avversario della Siria, il secondo più filo siriano, n.d.r.) non appare altro che un tentativo di alcuni “ex” di ritrovare un posto al sole tenendo conto degli sconquassi geopolitici.
Allora, bisogna pensare, come fanno alcuni analisti, che questo gruppo non abbia un avvenire? Se le sfide che intende affrontare fossero puramente interne, la risposta sarebbe chiara e immediata. Il “Rassemblement des chrétiens indépendants” non sarebbe che una formazione effimera, e eteroclita, di personalità in realtà senza nessun collegamento l’una con l’altra; tenute insieme dall’ambizione di ricostituirsi un ruolo politico qualunque, grazie alla creazione – aleatoria – di una “terza via”.
Ma questo gruppo mira a ben più. Ha l’ambizione di diventare il supporto politico a una visione del Libano ispirata dalle prese di posizione del patriarca maronita sul ruolo che i cristiani sono chiamati a svolgere sia in Libano che su un piano regionale. Per il patriarca maronita, infatti, la scissione fra il 14 e l’8 marzo non è che un riflesso fra sunniti e sciiti del Libano, espressione interna di una rivalità più ampia, che tocca tutto il Medio oriente.
Il capo della Chiesa maronita pensa che anche nel loro approccio politico i cristiani devono essere artigiani di pace; anche se è ben conscio che la discordia sunnita-sciita è uno degli elementi principali nell’esodo massiccio dei cristiani dall’Iraq, e che costituisce un grave fattore di instabilità, non senza incidenza sul movimento di emigrazione che tocca particolarmente le comunità cristiane orientali.
Il “Rassemblement”, che si doterà di strutture e che il 20 gennaio pubblicherà un programma di azione da proporre al patriarca. Questi lavora già su un documento per inquadrare l’avvenire delle rivoluzioni arabe e garantirne un’apertura pluralista, lanciando un’iniziativa ambiziosa verso i grandi centri spirituali sunniti (Al-Azhar, in Egitto) e sciiti (Qom, in Iran, e Najaf, in Iraq) per disinnescare i conflitti interni all’islam. E’ ovvio che il successo di un’iniziativa di questo genere non può avere per ora nessuna garanzia, e che queste visioni politiche restano precarie, se non trovano interlocutori nelle forze politiche presenti nei Paesi arabi e islamici.
Non è difficile vedere come questa iniziativa interna, ispirata da Bkerke si unisca agli altri sforzi che tendono a consolidare, e talvolta a creare, la democrazia e il rispetto del pluralismo in Libano e nella regione. Le visite recenti in Libano del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e del ministro turco degli Esteri Ahmet Davetoglu, dimostrano che il dossier libanese è diventato inseparabile dagli avvenimenti che si sviluppano in Siria. Da Beirut il segretario generale dell’Onu, nel corso di una visita di tre giorni in Libano, ha chiesto al presidente Bashar al-Assad di smetterla “di uccidere il suo popolo”. Ban Ki-moon ha espresso la sua preoccupazione per i siriani che hanno trovato rifugio in Libano, 5mila dei quali si sono installati in qualche villaggio sunnita vicino alla frontiera, a nord. Gli Hezbollah, e le forze pro-siriane del Libano hanno rimproverato al segretario generale dell’Onu di aver utilizzato il Libano come tribuna per rivolgersi alla Siria. Al di là di queste considerazioni, forse sincere, del segretario generale dell’Onu, ciò che questi scambi lasciano capire è che l’avvenire del Libano è sempre più legato all’avvenire della rivoluzione in Siria. Ma le riserve espresse dal capo dello Stato, le forze politiche libanesi le mettono in luce con chiarezza: il Libano non permetterà di essere utilizzato come una carta contro la Siria, e in particolare con l’eventuale creazione di una zona tampone sulla sua frontiera settentrionale.
Oltre al segretario generale dell’Onu anche il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha compiuto una visita in Libano. Il capo della diplomazia turca ha accarezzato l’opinione pubblica cristiana, affermando che i cristiani non devono pagare il prezzo della primavera araba e che “la regione appartiene a tutte le confessioni”. Queste frasi rassicuranti sono indirizzate, si può pensare, non solamente ai libanesi ma ai cristiani di Siria, mentre si tenta di staccarli dal regime del presidente Assad e di convincerli a trattare con i Fratelli musulmani in Siria. Anche in questo caso il Libano è usato come una tribuna, contro il regime baath. Ma bisogna sapere che per quanto sia diviso, su questo punto così cruciale il Libano non cascherà nella trappola. La sua neutralità ufficiale rispetto agli avvenimenti siriani non verrà scossa. E questo perché vede più lontano dell’occidente, che lo sollecita un po’ ingenuamente.
In effetti secondo un diplomatico europeo con sede a Damasco la primavera araba, araldo di democrazia, porta con sé i germi di una futura condanna della politica occidentale in Oriente e dell’appoggio cieco fornito dagli Stati Uniti e da alcune democrazie occidentali a Israele. E’ allora sui tempi lunghi che sarà necessario giudicare il risveglio dei popoli arabi, e l’appoggio che oggi le democrazie occidentali gli forniscono non le assolverà da un severo giudizio futuro
La creazione l’8 gennaio, ad Harissa, del “Rassemblement des chrétiens indépendants” è un paradosso, Se il termine “indipendente” si adatta bene ad alcune, rare personalità che ne fanno parte, la maggior parte degli altri sono segnati in maniera forte dal loro passato politico e dal collegamento con un regime siriano in declino. A prima vista questo gruppo che cerca apertamente di rompere l’allineamento fra i movimenti del 14 e dell’8 marzo (il primo avversario della Siria, il secondo più filo siriano, n.d.r.) non appare altro che un tentativo di alcuni “ex” di ritrovare un posto al sole tenendo conto degli sconquassi geopolitici.
Allora, bisogna pensare, come fanno alcuni analisti, che questo gruppo non abbia un avvenire? Se le sfide che intende affrontare fossero puramente interne, la risposta sarebbe chiara e immediata. Il “Rassemblement des chrétiens indépendants” non sarebbe che una formazione effimera, e eteroclita, di personalità in realtà senza nessun collegamento l’una con l’altra; tenute insieme dall’ambizione di ricostituirsi un ruolo politico qualunque, grazie alla creazione – aleatoria – di una “terza via”.
Ma questo gruppo mira a ben più. Ha l’ambizione di diventare il supporto politico a una visione del Libano ispirata dalle prese di posizione del patriarca maronita sul ruolo che i cristiani sono chiamati a svolgere sia in Libano che su un piano regionale. Per il patriarca maronita, infatti, la scissione fra il 14 e l’8 marzo non è che un riflesso fra sunniti e sciiti del Libano, espressione interna di una rivalità più ampia, che tocca tutto il Medio oriente.
Il capo della Chiesa maronita pensa che anche nel loro approccio politico i cristiani devono essere artigiani di pace; anche se è ben conscio che la discordia sunnita-sciita è uno degli elementi principali nell’esodo massiccio dei cristiani dall’Iraq, e che costituisce un grave fattore di instabilità, non senza incidenza sul movimento di emigrazione che tocca particolarmente le comunità cristiane orientali.
Il “Rassemblement”, che si doterà di strutture e che il 20 gennaio pubblicherà un programma di azione da proporre al patriarca. Questi lavora già su un documento per inquadrare l’avvenire delle rivoluzioni arabe e garantirne un’apertura pluralista, lanciando un’iniziativa ambiziosa verso i grandi centri spirituali sunniti (Al-Azhar, in Egitto) e sciiti (Qom, in Iran, e Najaf, in Iraq) per disinnescare i conflitti interni all’islam. E’ ovvio che il successo di un’iniziativa di questo genere non può avere per ora nessuna garanzia, e che queste visioni politiche restano precarie, se non trovano interlocutori nelle forze politiche presenti nei Paesi arabi e islamici.
Non è difficile vedere come questa iniziativa interna, ispirata da Bkerke si unisca agli altri sforzi che tendono a consolidare, e talvolta a creare, la democrazia e il rispetto del pluralismo in Libano e nella regione. Le visite recenti in Libano del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, e del ministro turco degli Esteri Ahmet Davetoglu, dimostrano che il dossier libanese è diventato inseparabile dagli avvenimenti che si sviluppano in Siria. Da Beirut il segretario generale dell’Onu, nel corso di una visita di tre giorni in Libano, ha chiesto al presidente Bashar al-Assad di smetterla “di uccidere il suo popolo”. Ban Ki-moon ha espresso la sua preoccupazione per i siriani che hanno trovato rifugio in Libano, 5mila dei quali si sono installati in qualche villaggio sunnita vicino alla frontiera, a nord. Gli Hezbollah, e le forze pro-siriane del Libano hanno rimproverato al segretario generale dell’Onu di aver utilizzato il Libano come tribuna per rivolgersi alla Siria. Al di là di queste considerazioni, forse sincere, del segretario generale dell’Onu, ciò che questi scambi lasciano capire è che l’avvenire del Libano è sempre più legato all’avvenire della rivoluzione in Siria. Ma le riserve espresse dal capo dello Stato, le forze politiche libanesi le mettono in luce con chiarezza: il Libano non permetterà di essere utilizzato come una carta contro la Siria, e in particolare con l’eventuale creazione di una zona tampone sulla sua frontiera settentrionale.
Oltre al segretario generale dell’Onu anche il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu, ha compiuto una visita in Libano. Il capo della diplomazia turca ha accarezzato l’opinione pubblica cristiana, affermando che i cristiani non devono pagare il prezzo della primavera araba e che “la regione appartiene a tutte le confessioni”. Queste frasi rassicuranti sono indirizzate, si può pensare, non solamente ai libanesi ma ai cristiani di Siria, mentre si tenta di staccarli dal regime del presidente Assad e di convincerli a trattare con i Fratelli musulmani in Siria. Anche in questo caso il Libano è usato come una tribuna, contro il regime baath. Ma bisogna sapere che per quanto sia diviso, su questo punto così cruciale il Libano non cascherà nella trappola. La sua neutralità ufficiale rispetto agli avvenimenti siriani non verrà scossa. E questo perché vede più lontano dell’occidente, che lo sollecita un po’ ingenuamente.
In effetti secondo un diplomatico europeo con sede a Damasco la primavera araba, araldo di democrazia, porta con sé i germi di una futura condanna della politica occidentale in Oriente e dell’appoggio cieco fornito dagli Stati Uniti e da alcune democrazie occidentali a Israele. E’ allora sui tempi lunghi che sarà necessario giudicare il risveglio dei popoli arabi, e l’appoggio che oggi le democrazie occidentali gli forniscono non le assolverà da un severo giudizio futuro
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