18/11/2003, 00.00
cina
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I successi economici apparenti; la schiavitù, i fallimenti

di Maurizio DOrlando

Il 10 novembre scorso l'Istituto Nazionale di Statistica di Pechino ha rilasciato i dati sull'economia di ottobre. Essi sono davvero impressionanti: in ottobre la produzione industriale in Cina è cresciuta del 17,2 % riprendendo l'impetuosa corsa di questi ultimi anni. Nel settembre scorso si  era registrato un modestissimo rallentamento (si fa per dire, perché in settembre l'incremento produttivo rispetto all'anno precedente era stato "solo" del 16,3 %, un tasso di crescita che in Italia abbiamo sporadicamente visto solo nei mitici anni '50 e primi anni '60).

Il dato di ottobre, trainato dai progressi dell'industria degli impianti di telecomunicazioni, dei metalli, e dell'elettronica, è risultato il secondo miglior incremento dell'anno; esso è inferiore solo alla crescita registrata in febbraio, il 19,8 % su base annua.

La maggioranza degli analisti economici si attende che la rapida crescita prosegua con ritmi simili anche nei prossimi mesi, sempre sostenuta dai progressi delle esportazioni. Secondo Huang Yiping, economista dell'ufficio studi della finanziaria americana Smith Barney (appartenente al Citigroup) non ci sono rischi di "surriscaldamento" (leggi inflazione) dell'economia, al più ci sono segni di eccessivi investimenti.

Sempre secondo l'ufficio cinese di statistica la produzione di auto, uno dei settori più brillanti quest'anno, ad ottobre è cresciuta "solo" del 21,4 % su base annua, mentre a settembre la crescita era stata del 36,8 %.

Crescite strabilianti

Gli incrementi nel settore siderurgico nei due mesi sono stati del 25 e del 28,9%; nel settore dei computer l'incremento su base annua ad ottobre è stato del 100%; la produzione di telefoni cellulari sempre nello stesso mese è cresciuta del 37,4% rispetto a quella dell'anno precedente. In linea generale sempre ad ottobre la crescita per l'industria leggera è stata del 15,3% su base annua (2,2% di incremento di crescita rispetto al mese precedente) mentre per l'industria pesante è stata del 18,4% (invariata rispetto a settembre).

Dai dati forniti è evidente che la crescita industriale in larga parte è spinta non dalla domanda interna, ma dalle esportazioni, cresciute in ottobre del 29,4% su base annua (contro un 26,1% in settembre). Le esportazioni di impianti di telecomunicazioni sono cresciute del 45,6 % e quelle di macchine elettroniche del 38,9 % mentre quelle del comparto tessile sono cresciute "solo" del 20,1%.

I dati dell'Istituto di Statistica mostrano che il motore della crescita industriale cinese è fornito dagli investimenti stranieri: in ottobre la produzione delle imprese a capitale estero è stata di 104,6 miliardi di yuan con un incremento del 20,6 % su base annua (in settembre era il 19,4 %) mentre quella delle imprese statali è stata di 165,8 miliardi di yuan con un incremento annuo sempre nello stesso mese del 12,6 % (il mese precedente era il 12,4 %). Gli altri settori economici cinesi come l'agricoltura ed i servizi mostrano ovviamente tassi di crescita inferiori ma in fondo quello che conta, sembrano dirci i funzionari del regime comunista cinese, è che complessivamente la crescita economica media del Prodotto Interno Lordo (PIL) della Cina nel 2003 è stata dell'8,6 %.

Il dato è indubbiamente strabiliante, anche perché esso dura da parecchi anni, senza aver prodotto significativi fenomeni d'inflazione. Ancor più strabiliante è che una crescita complessiva così forte non avviene in un piccolo paese ma nel più popoloso del mondo con 1,3 miliardi di abitanti. Si è sempre pensato che certi sviluppi estremi - sociali ed economici – fossero possibili solo nelle piccole nazioni, non nelle grandi. Nazioni come la Svizzera (con il suo granitico liberismo senza disoccupazione) o come il Malawi (che aveva vissuto stagioni di crescita dal 7 al 9 % annuo) potevano al massimo essere considerate come nazioni-laboratorio,  non certo un modello di sviluppo per un paese popoloso come la Cina. Invece proprio la Cina, ancora guidata dal partito comunista, sembra essere oggi l'alfiere del liberismo e dello sviluppo. La cosa sembra paradossale e per certi aspetti straordinaria.

Il colosso fragile

Eppure è forse lecito chiedersi se è tutto oro quello che luccica. In un'intervista apparsa recentemente sul Wall Street Journal, Weijian Shan, un economista socio della Newbridge Capital, finanziaria americana che investe capitali privati di rischio in Cina, aveva dichiarato che il vero paradosso è un altro: l'economia cinese è quella che presenta i maggiori tassi di crescita al mondo ed al contempo è la più inefficiente. Shan ha anche definito quella cinese un'economia "surreale" che "non può continuare all'infinito" e la Cina come un gigante che vive una "crescita imprestata".

Secondo Shan il sintomo di questa fragilità cinese è dato dalla disastrosa condizione del suo sistema bancario: quasi il cinquanta per cento dell'attivo bancario è costituito da crediti in sofferenza. In altri termini quasi la metà dei fondi depositati dai risparmiatori cinesi sono  prestati dalle banche ad imprese che non sono in grado di onorare i propri impegni. Questo è preoccupante non solo per le famiglie, ma per l'intero sistema sociale ed economico in quanto il credito bancario costituisce quasi il 98 % del finanziamento alle imprese. Altrove, banche in una situazione anche molto meno disastrosa sarebbero dichiarate insolventi cioè poste in fallimento. La Cina ha invece due "vantaggi": da un lato il più alto tasso di risparmio al mondo (circa il 40 %); dall'altro ferrei controlli sui movimenti di capitali e sul tasso di cambio.

A volte l'economia, con la sua astrazione, è accusata di non tenere conto delle sofferenze delle persone. Per questo cerchiamo di chiarire questi dati: coloro che in Cina hanno la fortuna di avere un lavoro autentico, non solo devono accontentarsi di redditi molto bassi, ma devono sopravvivere con appena il 60% di tali bassi redditi, per provvedere ad un futuro che non sentono garantito né dallo Stato né dalla famiglia, tradizionale punto di forza della società cinese, che invece lo Stato ha combattuto e combatte.

Fallimenti bancari e umani

Per cercare di tutelare un futuro privo di qualunque sostegno, l'unico strumento consentito ai lavoratori è quello di depositare i propri soldi, cioè la propria teorica e già scarsa capacità d'acquisto, presso banche che li girano ad imprese che non li potranno restituire. Paradosso del paradosso, tali imprese sono spesso le stesse che ai suddetti lavoratori forniscono, almeno per il momento, i poveri stipendi di cui sopra. La Standard & Poor's, primaria società americana di valutazione del debito sovrano aziendale, stima che il costo per ripulire il sistema bancario dal peso di oltre 50 anni di fallimenti del regime - scaricati sui bilanci delle banche - è di 518 miliardi di dollari, cioè più del 40 % del PIL cinese. Senza il sostegno bancario, questo costo è destinato a tradursi in anni di crescita fortemente negativa, di depressione economica e di possibili forti squilibri sociali e politici. Questo spiega perché il regime comunista cinese necessita i capitalisti stranieri, un tempo "odiati". Per chiamarli a sé offre loro un affare irripetibile: l'accesso alla più grande riserva mondiale di manodopera schiava, di cui finora si era garantito il monopolio. Perché meravigliarsi se nel paese della crescita economica travolgente, del trionfo delle esportazioni su tutti i mercati, del successo in ogni settore, si registra anche una delle percentuali più elevate di suicidi del mondo ?

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