I militari tentano di fermare la protesta e nascondere la repressione
Uccisioni, arresti e pestaggi non sembrano però aver fermato del tutto la protesta. Tentativi di bloccare internet. Usa ed Europa annunciano sanzioni, cui non si uniscono i governi amici di Cina e India, che maggiormente potrebbero avere influenza. Episodi di rifiuto dei soldati di sparare sulla gente.
Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Uccisioni, arresti e pestaggi notturni da parte dei militari sembrano aver ottenuto la diminuzione del numero dei manifestanti in Myanmar, ma non sono riusciti a fermare la protesta. Parlando ad una radio straniera, i monaci hanno annunciato la creazione di un fronte unitario insieme a studenti ed oppositori e voci non confermate ipotizzano dissidi interni ai militari. A livello internazionale intanto si assiste ad un moltiplicarsi delle prese di posizione di governi e organizzazioni, seppure con accenti diversi e con Paesi “amici”, in primo luogo Cina e India, molto cauti nelle critiche.
A Yangon oggi sono scese in strada circa 10mila persone, in gran parte studenti, affrontati dalla polizia che ha sparato in aria ed effettuato cariche intorno alla centrale pagoda Sule. Principali preoccupazioni del governo dei militari, a questo punto, sembrano essere in primo luogo quella di riuscire a bloccare non solo le proteste, ma anche la diffusione all’estero di notizie ed immagini della repressione ed in secondo luogo i non rarissimi episodi di rifiuto da parte dei soldati di sparare sulla gente o picchiare i monaci. A quest’ultimo proposito, fonti di AsiaNews riferiscono di arruolamenti forzati e incentivi offerti ai giovani. E’ stato anche raccontato di militari drogati.
Nel tentativo di impedire la diffusione di notizie, oggi fonti locali riferiscono della chiusura di tutti gli internet-point, mentre funzionari governativi hanno giustificato con la rottura di un cavo sottomarino, la difficoltà. quando non l’impossibilità di collegamenti in rete anche da parte di privati. Il fatto, unito alla caccia ai giornalisti lanciata dai militari, fa temere progetti di ulteriore e ancora più violenta repressione.
Uno sguardo sulla situazione dovrebbe riuscire a darlo l’inviato speciale dell’Onu, Ibrahim Gambari, al quale la giunta militare ha concesso il visto per entrare nel Paese. L’intervento di Gambari segue la debole presa di posizione del Consiglio di sicurezza – sostanzialmente bloccato da Cina e Russia – e quella inusualmente forte dell’Asean. Sanzioni “mirate” contro i militari della giunta sono annunciate a livello europeo, mentre gli Usa hanno bloccato i beni che vi hanno 14 esponenti governativi del Myanmar. Moniti nei confronti di Yangon sono venuti da parte di quasi tutti i governi occidentali ed in numerosi Paesi ci sono state manifestazioni di protesta davanti alle ambasciate birmane. Tra gli appelli, assume un senso particolare quello di Thich Quang Do, numero due della Chiesa buddista unificata del Vietnam, proibita nel suo Paese. Il religioso ha rivolto alle Nazioni Unite ed al mondo la richiesta di “un’azione urgente per esortare il governo birmane a porre fine agli attacchi, arresti e violenze che sta esercitando contro pacifici manifestanti”.
Ma a poter veramente pesare sulla giunta di Yangon, sarebbero però soprattutto Cina ed India, ossia i Paesi che hanno i maggiori interessi economici con il Myanmar. Ma mentre Jiang Yu, portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, esprimeva la “preoccupazione” del suo governo per quanto sta accadendo e “la speranza che tutte le parti usassero moderazione”, l’agenzia ufficiale Xinhua, nell’edizione in cinese affermava che “le autorità del Myanmar hanno usato moderazione nei confronti dei monaci che manifestavano e non hanno usato la forza per disperdere i dimostranti”.
L’India, dal canto, suo, ha cautamente chiesto “riconciliazione nazionale” e “riforme politiche”, in qualche modo giustificando la propria freddezza con le annunciate sanzioni europee ed americane. L’atteggiamento di New Delhi ha un motivo: nel 1988 l’India era stata uno dei più impegnati sostenitori del movimento democratico, poi soppresso in un bagno di sangue, ma proprio tale atteggiamento aveva finito col favorire la crescita dell’influenza cinese e, soprattutto, la concessione a Pechino delle maggiori forniture di gas ed altri prodotti naturali. Ora invece, mentre si manifestavano i primi segni dell’insofferenza popolare birmana, il ministro indiano del petrolio Murli Deora, era in visita in Myanmar.
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