I 188 martiri giapponesi, come i martiri dei primi secoli
Roma (AsiaNews) – Il 24 novembre a Nagasaki, nel Big-N Baseball Stadium, saranno beatificati il p. Pietro Kibe e altri 187 martiri giapponesi, uccisi fra il 1606 e il 1639. La cerimonia sarà presieduta dal card. José Saraiva Martins, inviato di Benedetto XVI e prefetto emerito della Congregazione per la causa dei santi. Fra i cattolici giapponesi c’è molta attesa e si pensa che arriveranno a Nagasaki circa 25 mila persone per prendere parte alla messa di beatificazione.
I 188 martiri coprono solo un breve periodo della storia della persecuzione in Giappone. Dopo i primi promettenti inizi dell’evangelizzazione, nella seconda metà del ‘500, nel ‘600 hanno cominciato a perseguitare i cristiani, fino a proibire il cristianesimo, cacciare i missionari stranieri, varare una persecuzione totale, fra le più crudeli. Solo nel 1873, sotto l’imperatore Meiji, si decreta la fine delle persecuzioni con un editto di tolleranza. La storia dei 188 martiri giapponesi è intrecciata con quella del Paese, con i problemi di politica interna, le lotte fra feudatari e per l’unificazione del Giappone; con i rapporti, le alleanze e i tradimenti con le potenze coloniali. In essa però è evidente il tentativo del potere politico di dominare in modo completo la vita della popolazione e dei cristiani, come anche la limpidezza della fede di questi ultimi, uccisi, pur nell’ammirazione dei loro connazionali.
Fra i 188 che saranno beatificati, 4 sono preti, uno è un religioso, e la maggioranza - ben 183 - sono laici: alcuni nobili, altri stimati samurai, altri gente comune, contadini e perfino adolescenti e bambini. Di essi, 60 sono donne, 33 sono giovani al di sotto dei 20 anni; 18 sono bambini sotto i 5 anni. Fra loro vi sono intere famiglie che hanno affrontato insieme il martirio. Ecco la presentazione di alcune di queste figure, da parte di p. Tardiff, del Pime, per 11 anni missionario in Giappone.
Le storie dei martiri giapponesi che saranno beatificati il 24 novembre risalgono a un periodo di 400 anni fa. A leggere però le loro storie sembra di ritornare ancora più indietro, agli Atti dei martiri della prima Chiesa.
Il samurai Zaisho Shichiemon è stato battezzato il 22 luglio del 1608. Egli ha preso il nome di Leone, quello del grande papa che ha fermato le invasioni dei barbari. La sua storia, però ricorda molto più da vicino il percorso di san Giustino, il martire che dopo aver trovato la Verità, non ha voluto più rinnegarla. Hangou Mitsuhisa, il signore feudale sotto di cui Zaisho serviva, aveva già proibito ai suoi di diventare cristiani. Il sacerdote a cui Zaisho ha chiesto il battesimo glielo fece presente, ricordandogli che egli avrebbe potuto essere punito o perfino ucciso. “Lo so – egli ha risposto- ma io ho compreso che la salvezza sta nell’insegnamento di Gesù e nessuno potrà separarmi da Lui”.
Come nel caso di molti martiri, non si trattava solo di una convinzione mentale, ma di un rapporto mistico. Un giorno Zaisho ha confessato a un suo amico: “Non capisco come, ma ormai io mi scopro sempre a pensare a Dio”. Arrestato, gli è stato ordinato di rinunciare alla fede. La sua risposta è stata: “In qualunque altra cosa, io obbedirei, ma non posso accettare alcun ordine che si opponga alla mia salvezza eterna”. Al mattino del 17 novembre 1608, nemmeno 4 mesi dopo il suo battesimo, è stato condannato a morte nella strada davanti alla sua casa.
San Francesco Saverio è giunto in Giappone nel 1549, iniziando la predicazione del Cristo nel paese del sol levante. Dopo 60 anni lo Shogun (il dittatore militare del Giappone) ha scatenato una persecuzione contro al giovane Chiesa che può rivaleggiare in furia con quella dell’imperatore Diocleziano, agli inizi del IV secolo. Donne e bambini vengono presi nel turbine. Le loro storie ricordano quelle di Perpetua e Felicita, o di sant’Agnese.
Il 9 dicembre 1603, Agnese Takeda, assiste alla decapitazione di suo marito. Piena di riverenza e amore, ha preso la sua testa e l’ha stretta al petto. Le cronache dicono che a quella vista, non solo la folla, ma perfino i carnefici si sono commossi. La separazione della coppia è stata breve perché Agnese è stata martirizzata più tardi, lo stesso giorno.
Nel 1619 Tecla Hashimoto, che aspetta il suo quarto figlio, è stata legata a una croce e insieme alle altre figli, di cui una ha solo 3 anni sono state bruciate vive. Mentre le fiamme si ingrossano attorno a loro, la sua figlia di 13 anni grida: “Mamma, non riesco a vedere più nulla!”. E la madre risponde: “Non temere. Fra poco vedrai tutto con chiarezza”.
P. Pietro Kibe, che dà il titolo liturgico a questo gruppo di martiri (”P. Pietro Kibe e 187 martiri giapponesi”), ha una storia avventurosa, vicina a quella di san Cipriano. Da seminarista, nel 1614 egli è stato esiliato a Macao, con tutti i missionari stranieri presenti in Giappone. Il suo ardente desiderio era quello di diventare prete e tornare fra il suo popolo. Così nel 1618 egli lascia Macao su una nave e arriva fino a Goa (India). Da lì egli viaggia da solo attraversando quelli che oggi sono il Pakistan, l’Iran, l’Iraq, la Giordania e arriva fino in Terra santa. Dopo uan visita ai Luoghi santi, egli giunge nel 1620 a Roma. Ordinato sacerdote, egli si prepara al ritorno in Giappone. Intanto lo shogun ha chiuso la nazione a tutti, eccetto alcuni contatti molto controllati con gli olandesi. P. Pietro riesce a tornare in segreto in Giappone, cominciando a vivere come un fuggitivo e celebrando con i cristiani di nascosto. Nel 1633, avendo saputo che il missionario p. Fereira era divenuto un apostata, esce allo scoperto e va a trovarlo. “Padre – gli dice – andiamo insieme alla stazione della polizia militare. Lei ritratta la sua apostasia e poi moriremo insieme”. P. Fereira rifiuta. Dopo di che, p. Pietro si sposta nel nord dell’Honshu, l’isola maggiore del Giappone. La polizia riesce a catturarlo nel 1639, e lo trascina a Edo (l’antico nome di Tokyo) dove per farlo rinunciare alla fede viene torturato con crudeltà e poi ucciso.
Nei martiri giapponesi del XVII secolo e in quelli dei primi secoli brilla lo stesso potere di Cristo: vi è la stessa chiara coscienza, la stessa indomabile convinzione nel rifiutare di rinunciare alla fede, lo stesso spirito gioioso in mezzo alle crudeli sofferenze, la stessa forza sovrumana, segno che un Altro soffriva in loro. I tormenti e la morte non li hanno travolti. Essi sono stati uccisi, ma hanno vinto.