20/11/2008, 00.00
GIAPPONE
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I 188 martiri, occasione di crescita per la Chiesa giapponese

di Pino Cazzaniga
Il 24 novembre verranno beatificati quelli che il cardinale Pietro Seichi Shirayanagi, in questa intervista definisce persone normali, “esemplari nell’osservanza dell’ordine sociale, non hanno esitato a rifiutare la sottomissione a decreti dello shogun e dei daimyo quando si opponevano alla fede e alla dignità della persona umana”.
Tokyo (AsiaNew) - Persone normali, che erano artigiani, commercianti o guerrieri, persone “esemplari nell’osservanza dell’ordine sociale, non hanno esitato a rifiutare la sottomissione a decreti dello shogun e dei daimyo quando si opponevano alla fede e alla dignità della persona umana”. Il cardinale Pietro Seichi Shirayanagi descrive così, in una conversazione con AsiaNews i 188 martiri giapponesi che proprio oggi il Vaticano ha confermato che saranno beatificati il 24 novembre a Nagasaki, "Nagasaki Big N. Stadium”. La beatificazione, spiega, pur riguardando persone di quattro secoli fa, entra nell’attualità religiosa, ed anche politica, del Giappone di oggi.
“L’iniziativa” della beatificazione è stata di Giovanni Paolo II, afferma il cardinale, la personalità più competente sulla vicenda. Attualmente egli non ha responsabilità giuridiche avendo lasciato la direzione dell’archidiocesi di Tokyo nel 2002. Ma la causa di questa beatificazione è durata un quarto di secolo e in quel periodo il cardinale ha svolto un ruolo direttivo di prim’ordine e ne è stato il più entusiasta promotore. Ma “sarebbe superficiale escludere la Chiesa del Giappone”, aggiunge, riferendosi a quanto accadde durante la visita papale del febbraio 1981. In quell’occasione il Papa, forse commosso per l’entusiasmo religioso dei cristiani giapponesi, avrebbe detto ai vescovi: “La Chiesa del Giappone ha una grande eredità spirituale: la ricchezza dei suoi martiri. Perchè non procedete a una nuova beatificazione?”. “L’esortazione del Papa – spiega il porporato - cadeva in un terreno preparato. I vescovi giapponesi da tempo nutrivano il desiderio di una nuova beatificazione, ma non osavano esprimerlo.
 
La visita di Giovanni Paolo II in Giappone è avvenuta a poco più di due anni dall’inizio del suo pontificato. Allora la sua conoscenza della Chiesa giapponese doveva essere piuttosto generica. Si può quindi pensare che la sua esortazione sia stata un po’ improvvisata, frutto di intuizione pastorale?
Shirayanagi. Non parlerei di improvvisazione. Si sa che Giovanni Paolo II ha preparato con cura la sua visita alla nostra Chiesa e al nostro Paese, in una prospettiva pastorale, ma anche, e non secondariamente, “politica”. E’ venuto soprattutto come “Pellegrino della pace”. Pur non sottovalutando gli incontri religiosi a Tokyo e a Nagasaki, l’avvenimento focale è stato il discorso contro gli armamenti nucleari e la preghiera per la pace pronunciati sul piazzale di Hiroshima.
 
L’anno scorso il vescovo di Nagoya,. mons. Agostino Jun’ichi Nomura, annunciando il decreto di beatificazione, ha scritto: “Penso che non sia solo un felice evento per la Chiesa giapponese, ma abbia anche un importante significato per la nostra nazione nel suo insieme”.
Sono d’accordo. Direi, anzi, che essa è provvidenziale per il tempo in cui avviene. Da un po’ di tempo nella nostra nazione sono emerse, in ambienti politici e sociali, correnti di pensiero che mettono in discussione principi che noi come cristiani abbiamo il dovere e la missione di difendere senza compromessi. Mi riferisco a quanto chiaramente espresso negli articoli 9 e 20 della Costituzione. Il primo riguarda il pacifismo. Vi si legge: “Aspirando sinceramente a una pace internazionale basata sulla giustizia e sull’ordine, il popolo giapponese rinuncia per sempre alla guerra come diritto sovrano della nazione e alla minaccia o all’uso della forza come mezzo per risolvere dispute internazionali”. Noi vescovi giapponesi ne abbiamo solennemente sottolineato l’esemplarità e l’importanza in un messaggio pubblicato nel 2005, in occasione del 60mo anniversario della fine della Seconda guerra mondiale dal titolo “La via della pace e della non-violenza. Ora è il tempo di essere profetici”. Con riferimento al principio  della non-violenza, abbiamo scritto.: “Questo spirito appare nell’articolo 9 della Costituzione nella forma della rinuncia alla guerra come mezzo per risolvere le dispute internazionali e nella rinuncia agli armamenti”. E abbiamo aggiunto: “Non abbiamo noi il diritto di essere orgogliosi per il fatto che in 60 anni non abbiamo ucciso nessuno in guerra e che nessuno di noi è stato ucciso in guerra?”.
Altrettanto importante è il principio della separazione netta tra Stato e religione, sancito nell’articolo 20: “Nessun organizzazione religiosa riceverà alcun privilegio dallo Stato né eserciterà alcuna autorità politica”.
 
Chi non conosce la vicenda dello shintoismo di Stato che ha divinizzato l’autorità imperiale, e del santuario Yasukuni, che ha sacralizzato quell’orribile guerra, difficilmente può comprendere la motivazione e l’importanza di questo articolo. Sappiamo che lei biasima apertamente le visite che alcuni parlamentari e membri del governo fanno a questo tempio. Ma lei che, quando la Confederazione della conferenze episcopali dell’Asia (FABC) ha tenuto il suo convegno in Giappone, ha chiesto scusa sia come massimo responsabile della Chiesa cattolica in Giappone sia come cittadino giapponese, per i delitti commessi dal Giappone durante la guerra, che rapporto vede con la memoria dei 188 martiri.
Per rendersi conto dell’impatto che questa memoria avrà sulla Chiesa e sulla società nella nostra nazione, è utile sottolineare il fatto che la prossima celebrazione sarà, per così dire, tutta giapponese. Il mio successore, mons. Pietro Takeo Okada, ha scritto. “Questa è la prima cerimonia di beatificazione che viene tenuta in Giappone. Ed è anche la prima cerimonia nella quale tutti i martiri beatificati sono giapponesi”. E il vescovo Nomura ha sottolineato che “la maggior parte dei 188 martiri non erano né religiosi né preti, ma persone che hanno vissuto vite ordinarie come guerrieri (samurai), mercanti e artigiani”. Esemplari nell’osservanza dell’ordine sociale non hanno esitato a rifiutare la sottomissione a decreti dello shogun e dei daimyo quando si opponevano alla fede e alla dignità della persona umana. Purtroppo nella prima metà del secolo scorso noi cattolici non abbiamo sempre avuto il coraggio di imitare la coerenza di questi nostri antenati nella fede.
 
Penso che Lei si riferisca alla scabrosa questione del santuario Yasukuni, non tanto nel contesto del dibattito politico in corso, ma in quello della storia che ha gettato un’ombra anche sulla Chiesa. La delicatezza della materia mi spinge a citare letteralmente quanto voi vescovi avete scritto nel messaggio del 2007 in difesa del principio della separazione tra governo e religione.
“Mentre il Giappone procedeva vigorosamente verso la guerra nell’epoca Showa (anni ’30 e ’40), lo Stato fu completamente integrato con la religione dello shintoismo e il popolo, non solo in Giappone ma anche nella penisola coreana è stato costretto a compiere (atti di) venerazione nei templi shintoisti. Alla Chiesa cattolica si chiese se era giusto che gli studenti cattolici rendessero omaggio nel santuario Yasukuni. Dato il rigoroso controllo del governo sulle religioni, la questione era talmente cruciale da minacciare l’esistenza stessa della Chiesa cattolica in Giappone. Seguendo le indicazioni della (Congregazione di) Propaganda Fide in quei giorni, la Chiesa ha riconosciuto che i fedeli (potessero) rendere omaggio al tempio Yasukuni, dicendo che i riti, che il governo obbligava gli studenti a compiere, non erano (atti) religiosi, ma solamente ‘cortesia sociale’ per mostrare lealtà e patriottismo all’imperatore. In questo modo, continua la dichiarazione dei vescovi, la Chiesa si è messa sulla strada della cooperazione in quella guerra”.
È una pagina dolorosa della nostra storia, che però va letta nel suo contesto. Ora i vescovi, con questa e altre simili dichiarazioni hanno compiuto una vigorosa purificazione della memoria. È anche per questo noi vescovi difendiamo strenuamente l’articolo 20 della Costituzione.
 
È opinione diffusa che in Giappone il seme del vangelo sia caduto in un terreno sterile. Il numero esiguo dei cristiani sembra avallarla. In tale contesto la beatificazione dei 188 martiri quale significato ha per il cammino futuro della Chiesa giapponese?
Non credo che il criterio delle statistiche sia il migliore per giudicare il valore di una Chiesa. Detto questo, non esito ad affermare che la prossima beatificazione non solo è significativa, ma anche provvidenziale per il futuro della Chiesa in Giappone. La Chiesa cattolica, infatti, qui è stata lenta nell’accogliere la dottrina e l’energia riformatrice del Vaticano II. Il processo di effettiva ricezione si è messo in moto negli anni ’80. Il primo risultato si è avuto nel 1987 con la convocazione di una specie di sinodo nazionale, chiamato NICE, (National Incentive Convention for Evangelization - Assemblea nazionale per stimolare l’evangelizzazione). Nell’immagine della Chiesa giapponese, che in quella assemblea si è riflessa come in uno specchio, si è visto una frattura, non dottrinale, ma pastorale. Geograficamente la linea di divisione corrisponde alla stretto di mare che separa l’isola del Honshu (nord-est) da quella del Kyushu (sud): a nord una cristianità aperta al sociale, rappresentata dall’archidiocesi di Tokyo; a sud una cristianità impegnata nella crescita interiore, rappresentata da quella di Nagasaki.
Nei due decenni seguenti ci si è impegnati a superare la frattura mediante l’integrazione delle due tendenze. A livello di vescovi la frattura è stata superata. Ora bisogna procedere a livello di fedeli. La cerimonia della beatificazione sarà un forte momento di comunione e può esser l’inizio di un nuovo cammino per tutti i settori della Chiesa in Giappone.
 
Lo sarà anche nel settore della catechesi? Nel libro “Vele spiegate al vento della grazia”, recentemente scritto dal salesiano mons. Francesco Osamu Mizobe, per spiegare ai ragazzi il significato del martirio cristiano, ci sembra di vedere un modello di un nuovo metodo di catechizzazione.
A monsignor Mizobe, ora vescovo di Takamatsu, dobbiamo molta riconoscenza. Specialista della storia dei martiri giapponesi, fin dall’inizio lo abbiamo nominato membro della commissione di ricerca della quale è stato la chiave di volta. Quel libro è l’ultimo atto di questa sua attività e, si spera, l’inizio di nuovo cammino nella catechesi.
 
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