16/03/2011, 00.00
SRI LANKA
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Giovani tamil di Mannar e Jaffna: viviamo ancora nella paura

di Melani Manel Perera
Nei distretti settentrionali dello Sri Lanka non ci sono scontri tra le due comunità etniche, ma sparizioni e morti sospette preoccupano la popolazione. Il governo offre ai profughi interni sistemazioni alternative, ma nega loro il reinsediamento nei villaggi originari.
 Negombo (AsiaNews) – I giovani tamil che risiedno nei distretti nord-occidentali dello Sri Lanka (in particolare Mannar e Jaffna), figli del trentennale conflitto concluso nel 2009, affermano di sentirsi una minoranza e di vivere nella paura. Nonostante il presidente Mahinda Rajapaksa continui a proclamare che in quelle zone tutti i cittadini sono uguali e vengono trattati allo stesso modo dal governo. “Non ci sono scontri tra tamil e singalesi”, dichiarano alcuni giovani intervenuti a un Leadership Training Programme svoltosi a Negombo nei giorni passati. “Ma non sentiamo quella libertà di cui parla il governo. Non sentiamo di appartenere a una nazione libera. E ci sono ancora molti episodi di assassinii e sparizioni che ci fanno vivere nel sospetto e nella paura”.

“Se davvero il conflitto è finito come afferma il governo – proseguono alcuni ragazzi – perché continuano a ispezionare alcune zone, a fare irruzione nelle case dei tamil senza preavviso e senza dare alcuna spiegazione?”.

In molti casi, il governo sequestra le terre in quanto High Security Zones (Hsz), offrendo delle sistemazioni alternative alle famiglie che vi abitano. È il caso degli abitanti del villaggio cattolico di Mullikkulam: “Circa 250 famiglie, originarie di quel villaggio – racconta un giovane – da tempo vivono sparse per il distretto. Erano pescatori, contadini, allevatori e famiglie benestanti. Conducono una vita nomade ma non vogliono accettare ‘alternative’: sono determinate a tornare nelle proprie terre”. Fonti non ufficiali riferiscono che il governo vorrebbe costruire una base navale proprio nel villaggio di Mullikkulam.

Un’altra questione importante è l’assenza di un programma di assistenza efficace per le vedove di guerra e i loro figli. “La carità quotidiana – sottolinea un ragazzo – non può essere una soluzione”.

I giovani lanciano un ultimo appello: “Fino a quando non sentiremo di vivere le nostre giornate in libertà, senza alcuna restrizione, come ci ricordano i nostri genitori nei loro racconti, non possiamo dire di star bene. Ciò che dovremmo sentire è che siamo davvero parte di questa società”.
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