Diaoyu/Senkaku, la Cina scende in piazza. E Pechino lascia fare
Pechino (AsiaNews) - La "disputa delle isole" fra Pechino e Tokyo infiamma sempre di più la Cina continentale. Negli ultimi due giorni, in dieci grandi città si sono svolte manifestazioni di massa che hanno rasentato l'isteria: a Wenzhou e Shenzhen circa 20mila dimostranti hanno rovesciato macchine e incendiato bandiere giapponesi sotto gli occhi di poche decine di poliziotti che, nonostante il raduno non fosse autorizzato, non sono intervenuti. Altri episodi si sono svolti senza sosta a Guangzhou, Jinan, Hangzhou, Harbin, Chengdu, Shenzhen e a Hong Kong.
La prima fase del nuovo incidente diplomatico si è chiuso con il rientro dei nazionalisti nipponici a Ishigaki il rimpatrio di quelli cinesi sull'ex colonia britannica. I due gruppi hanno visitato nel giro di una settimana l'arcipelago conteso, che i cinesi chiamano Diaoyu e i giapponesi Senkaku. Al momento, le cinque isole e i tre atolli fanno parte della prefettura di Okinawa, sotto il governo giapponese. Ma i cinesi continuano a reclamarne la sovranità e a fasi alterne tendono in rapporto fra le due maggiori economie asiatiche.
Non è chiaro il valore dell'arcipelago. Si pensa che esse abbiano anzitutto un valore strategico, trovandosi sulla rotta delle più importanti vie marittime; altri affermano che oltre alle acque ricche di pesca, nel sottofondo marino vi siano sterminati giacimenti di gas. Nel 2008, come gesto di distensione, i due governi hanno firmato un accordo per lo sfruttamento e la ricerca congiunti nell'arcipelago, che tuttavia è rimasto lettera morta.
Rimane il fatto che esse infiammano l'animo nazionalistico di cinesi e giapponesi e sia Tokyo che Pechino, in preda a gravi problemi politici, vedono di buon occhio ogni argomento che distolga l'attenzione popolare dalle tensioni interne. Ma mentre per il Giappone si tratta di una normale crisi politica - il Partito democratico sta per sciogliere il governo e vuole mantenere l'attenzione popolare - la Cina prepara il 18esimo Congresso comunista e ha un disperato bisogno di allontanare i riflettori dalla politica.
Per questo, le autorità non sono intervenute nonostante la natura molto violenta delle manifestazioni. Un dimostrante ad Harbin dice: "Come cittadino ordinario non mi è chiara la posizione del mio Paese, ma personalmente dico che abbiamo già rovesciato questo piccolo Paese che è il Giappone e possiamo rifarlo. Per spiccare la Cina deve innanzitutto avere un popolo unito".
Nella città meridionale di Shenzhen si è svolta la manifestazione più pericolosa. Un migliaio di persone ha rovesciato auto fabbricate in Giappone in segno di protesta, mentre altre migliaia hanno sfilato davanti al consolato nipponico chiedendo "giustizia". Almeno 3 ristoranti giapponesi sono stati danneggiati in maniera seria, e il megastore Jusco - marca nipponica - è stato invaso da cittadini infuriati che hanno distrutto tutto quello su cui sono riusciti a mettere le mani.
Tuttavia, Pechino non ha intenzione di lasciare che il caos dilaghi. Secondo Zhou Yongsheng, esperto di affari nipponici della China Foreign Affairs University, "le manifestazioni sono così estese che il governo centrale non vuole neanche provare a fermarle. Lasciano che la rabbia si sfoghi anche per far dimenticare i problemi nazionali". Ma Chen Zimin, analista politico, aggiunge: "Il Congresso si avvicina e, se le cose dovessero peggiorare, non c'è dubbio che scatterà anche la repressione. Va bene far sfogare il popolo, ma il governo comunista non ha intenzione di lasciarsi sfuggire la situazione di mano".
Questo modo di fare stride in maniera evidente con la normale gestione dei raduni di massa non autorizzati. Il governo centrale ha sempre mantenuto il pugno di ferro contro chiunque osasse sfidarlo scendendo in piazza, e non si contano nell'ultimo anno le proteste finite con l'arresto e la condanna dei manifestanti, il più delle volte cittadini normali che lottano contro i soprusi delle autorità comuniste.