Damasco, un anno di rivolte. I cristiani nel Paese diviso
Damasco (AsiaNews) - Il 15 marzo di un anno fa le strade di Damasco si sono affollate per esigere anche in Siria i cambiamenti che la "primavera araba" stava portando in Nord Africa e nel Medio oriente. Giorni dopo a Deraa vi sono state proteste per la tortura e l'uccisione di alcuni bambini, colpevoli di aver scritto sui muri slogan anti-Assad. Da lì è iniziato il confronto sempre più duro fra l'esercito e molta parte della popolazione in varie città della Siria, fino al bombardamento durato un mese della città di Homs. Dopo un anno di proteste, la Siria è profondamente divisa da violenze molto vicine alla guerra civile. Perfino l'opposizione è sbriciolata in militari disertori, gruppi politici all'estero, gruppi politici all'interno. Il governo di Assad attua un disegno spietato contro tutti, mentre offre correzioni attraverso un referendum costituzionale e il lancio di nuove elezioni. Intanto i morti, secondo l'Onu sono almeno 8500 e sono migliaia i profughi in Turchia e in Libano. Il problema è pure che la Siria è divenuto un caso internazionale, uno scacchiere su cui combattono diversi interlocutori i cui interessi poco hanno a che fare con i bisogni della popolazione. L'Iran difende a spada tratta il suo alleato e oggi ha fatto giungere al governo degli "aiuti sanitari" attraverso la Croce rossa siriana. Arabia saudita e Qatar vogliono il cambiamento di regime e il contenimento dell'influenza iraniana e per questo sono pronti ad armare i ribelli. Il Consiglio di sicurezza dell'Onu è diviso, con Russia e Cina che appoggiano Assad per frenare l'influenza degli Stati Uniti nella regione. I cristiani, talvolta timorosi di fronte al regime, temono la sua caduta, che verrebbe sostituita da un governo fondamentalista islamico. Ciò non toglie che molti di loro, pur non imbracciando le armi, sostengono una trasformazione non violenta della società siriana. La testimonianza che presentiamo sotto, mostra che proprio la divisione e le ferite della popolazione è il nuovo campo di missione della Chiesa in Siria. Per ragioni di sicurezza, l'autore viene designato con uno pseudonimo.
La Siria di oggi vive una fase storica critica e vitale. Le condizioni di vita dei nostri cittadini sono delicate a causa delle difficili congiunture politiche, sociali ed economiche. Senza eccezione, la crisi siriana ha colpito e colpisce ancora tutti noi; anche se in modo diversi, le sue conseguenze negative sono visibili fra i siriani di tutte le appartenenze religiose, comunitarie, culturali, etniche. Il pane quotidiano di tutti i siriani è la sofferenza, l'inquietudine, la paura.
I drammatici avvenimenti si sviluppano con rapidità. La violenza crescente è divenuta in certi casi, come a Homs, una violenza religiosa, settaria, comunitaria. Essa porta alla separazione di alcune zone dall'altra. L'antica Homs, per esempio, a maggioranza sunnita e con una buona presenza di cristiani, è oggi sono il controllo del Free Syrian Army; ma altri quartieri a maggioranza alawita, come Zahra o Nouza, restano sotto il controllo dell'esercito regolare.
Tuto questo ha accresciuto la violenza e rafforzato l'odio storico di queste due comunità e si è diffuso uno spirito di vendetta contro ogni desiderio di coabitazione, dialogo, tolleranza. Questi valori continuano a perdere terreno e lasciano un vuoto difficile da gestire, soprattutto nelle zone degli scontri.
Nelle città di Damasco e Aleppo la situazione rimane più calma in confronto a Homs o ad Hama o a Idlib, o alla periferia di Damasco. Ogni tanto vi sono manifestazioni contro il regime; le forze di sicurezza cercando di spegnerle prima che esse giungano nelle grandi piazze simboliche: il regime fa di tutto per non avere anch'esso una Piazza Tahrir siriana. Ma malgrado ogni apparente tranquillità, non mancano la paura e l'inquietudine. Se vi è oggi una cosa che unisce tutti i siriani, di qualunque città o villaggio, questa è la paura.
Il referendum che Assad ha lanciato il 26 febbraio scorso forse poteva essere un elemento buono per unificare la nazione, per ricominciare il dialogo. Ma esso è stato celebrato mentre città intere erano assediate e bombardate. In ogni caso, io non ho voluto votare.
Quello che rimane inammissibile dal punto di vista morale e umano è il freno che il regime ha posto alla distribuzione degli aiuti umanitari nelle zone sinistrate.
Da parte loro, i cristiani vivono segnati dall'unica cosa certa che caratterizza tutti i siriani, cioè l'incertezza. L'avvenire è senz'altro incerto. In più, la maggioranza dei cristiani si fa manipolare dal regime e crede che esso sia il solo garante del loro avvenire. Il che non è vero per nulla. La sola garanzia per tutti i siriani - e non solo per i cristiani - dovrebbe essere uno Stato di diritti, giusto ed equo, in cui tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge, qualunque sia la loro appartenenza religiosa.
Spinta dalla paura, una buona parte dei cristiani e del clero sceglie per il sostegno incondizionato (e forse poco pensato) del regime. Da questo punto di vista, la Chiesa gerarchica della Siria rischia di perdere una parte essenziale del suo slancio evangelico originale.
Ciò detto, vi è comunque anche una buona parte di cristiani che fin dall'inizio hanno organizzato e partecipato a manifestazioni pacifiche. Cristiani, clero e laici, si mettono insieme ai loro fratelli e sorelle musulmani per organizzare insieme un lavoro di sostegno sociale e di aiuto umanitario verso tutti i siriani che soffrono.
Non so che sarà dell'avvenire. Sono certo però che il Paese è entrato in una specie di circolo vizioso della violenza e di contro-violenza. Per spiegare bene cosa succede, uso un'espressione di mons. Claverie (martirizzato in Algeria durante i moti degli anni '90): in Siria vi è una linea di frattura che divide il Paese e crocifigge l'umanità di tutti i siriani. Io credo che la Chiesa ha qui il suo posto, per rispondere in modo adeguato alla sua vocazione di testimoniare la speranza senza ombre e venire in aiuto a tutti coloro che soffrono.
*Sacerdote cattolico in Siria