Dall’energia all’istruzione, gli artigli del dragone premono su Baghdad
L'Iraq sarebbe il primo beneficiario degli investimenti cinesi per il 2021 nell’ambito della Belt and Road Initiative (Bri). Stanziati nove miliardi di euro per progetti infrastrutturali. Secondo dati cinesi, l'Iraq è il terzo partner Belt and Road per importanza dopo Pakistan e Russia. Alcune fonti smentiscono però i numeri cinesi. Nel Kurdistan iracheno gli universitari attirati dallo studio della lingua cinese.
Baghdad (AsiaNews) - L’Iraq è il primo Paese nella lista dei beneficiari degli investimenti stanziati da Pechino nell’ambito delle nuove “Vie della seta” per il 2021, con un finanziamento di quasi nove miliardi di euro per molteplici progetti infrastrutturali, fra i quali una centrale petrolifera. È quanto emerge dallo studio pubblicato ieri dal Green Finance & Development Center dell’università Fudan di Shanghai, secondo cui la Cina ha stanziato poco meno di 53 miliardi di euro ai 144 Paesi della Belt and Road Initiative (Bri) nel 2021, in linea coi 53,5 miliardi dell’anno precedente. Il rapporto conferma una volta di più i legami - a colpi di investimenti miliardari - del dragone in Medio oriente, soprattutto in Iraq dove ha approfittato del disimpegno statunitense per allargare affari e interessi, dall’energia all’istruzione con la costruzione di un migliaio di scuole.
Lungo la Via della seta, i dati registrano un leggero calo lo scorso anno rispetto al 2020, tuttavia guardando solo al Medio oriente e ai Paesi arabi emerge che Pechino ha aumentato i finanziamenti del 360% e i progetti di costruzione del 116%. Baghdad è il terzo partner più importante fra le nazioni che hanno aderito alla Bri, dopo Pakistan e Russia. I due Paesi stanno collaborando alla costruzione dell’impianto di Al-Khairat nella provincia di Kerbala, del valore di 5 miliardi di dollari.
Inoltre, la cinese Sinopec ha vinto l’appalto per lo sviluppo dell’impianto gassifero di Mansuriya, poco distante dal confine con l’Iran. Baghdad e Pechino stanno cooperando per la realizzazione di un aeroporto, una centrale per l’energia solare e altri progetti dall’importanza strategica, a conferma del rafforzamento della partnership. Dopo l’Iraq, Serbia e Indonesia sono i Paesi in cui ha investito di più all’interno del piano Belt and Road, lanciato nel 2013.
Tuttavia, secondo i critici i finanziamenti offerti da Pechino sono spesso sfavorevoli, non trasparenti e rendono alcuni Paesi più poveri, soprattutto in Africa, rendendoli dipendenti attraverso il debito. Inoltre, vi sarebbero anche dubbi sulla reale portata degli investimenti cinesi in Iraq: secondo il China Global Investment Tracker nel 2021 Pechino ha investito per “soli” 331 milioni di euro nel settore dei trasporti e 1,5 miliardi di euro nel comparto dell’energia.
L’interesse del dragone verso l’Iraq non riguarda solo l'ambito economico, ma ha riflessi culturali ben più profondi come dimostra la crescente influenza della lingua cinese nelle scuole irachene, soprattutto nella zona curda a nord. All’università Salahaddin di Erbil è nato un corso di lingua cinese e, se avrà successo, porterà all’apertura di un dipartimento di lingua cinese interno all’ateneo, assicurando un bacino crescente in cui reclutare lavoratori.
La conferma arriva da uno degli studenti del corso, il 20enne Regin Yasin, il quale vuole imparare la lingua perché “la Cina avrà il sopravvento in futuro”. La scuola è una “proiezione” del soft-power di Pechino, per consentire alla regione di “familiarizzare” con la Cina, come spiega il ricercatore Sardar Aziz, che ha scritto un libro in curdo sulle relazioni Cina-Iraq. Le compagnie del dragone dominano il settore petrolifero, con il consumo del 40% del totale di petrolio esportato dalla nazione araba, ma gli investimenti abbracciano ormai altre industrie, la finanza, i trasporti, le infrastrutture e le comunicazioni.
Nel 2017 il consolato cinese ha proposto all’università l’apertura di un dipartimento di lingua cinese, sfruttando la relativa sicurezza della regione autonoma curda rispetto a Baghdad, incontrando in un primo tempo le resistenze dell’ateneo. Il timore che il corso potesse restare vuoto era forte, come il rischio di non trovare docenti qualificati come sottolinea il rettore Atif Abdullah Farhadi. Egli ha quindi chiesto ai rappresentanti cinesi di trovare e pagare insegnanti, libri di testo, un laboratorio audio, oltre a scambi culturali e di studio a Pechino. “Hanno soddisfatto tutte le richieste” ha confermato il preside. Nel 2019 l’inaugurazione ufficiale e, il prossimo anno, si festeggeranno i primi laureati. E non è esclusa una ulteriore “espansione”. Farhadi conclude sottolineando che avrebbe voluto dire lo stesso per il dipartimento di lingua inglese, ma i consolati britannico e statunitense non hanno “mai” fornito sostegno e aiuto. A differenza dei cinesi.
22/12/2021 11:34
09/10/2017 15:45