C’è posto nei media per la missione?
Nei media laici ed ecclesiali il senso della missione è ridotto a cose da fare, a pauperismi, a posizioni ideologiche. Si tace sul “perché” un missionario dà la vita. La passione e il desiderio che i popoli conoscano l’amore di Gesù Cristo permette uno slancio profetico capace di percepire e aiutare lo sviluppo e il destino dei popoli.
Roma (AsiaNews) – Il valore della missione e dei media che la comunicano, come AsiaNews, sta nel suo slancio profetico, capace di percepire e aiutare lo sviluppo e il destino dei popoli. Ma tutto questo nasce dalla passione e dal desiderio che i popoli conoscano l’amore di Gesù Cristo. In occasione della Giornata missionaria mondiale 2019, che si celebra il 20 ottobre, pubblichiamo questo editoriale del direttore di AsiaNews. L’articolo è stato pubblicato da “Rogate Ergo”, ottobre 2019. Per il Messaggio di papa Francesco per la Giornata missionaria mondiale 2019, vedi qui.
La domanda che mi è stata posta - c’è posto nei media per la missione? - può essere interpretata in due modi. Il primo: quanto spazio danno i media (laici ed ecclesiali) alla missione? Il secondo: vale la pena dare spazio alla missione nei media?
Cominciamo a riflettere sul primo modo: quanto spazio danno i media (laici ed ecclesiali) alla missione? In generale direi: poco. Nell’esplosione e polverizzazione dell’informazione seguita a internet, blog, twitter, instagram, Facebook, ecc… vi sono così tante notizie che qualunque fatto rischia inevitabilmente di annegare nel flusso mediatico. In più, una volta i missionari che andavano all’estero, che si facevano crescere una lunga barba segno di saggezza (per gli orientali) e di virile avventurismo (per gli occidentali), erano fra i pochi che viaggiavano in altri continenti. Essi quindi portavano oggetti, raccontavano modi di fare, di mangiare, di vestire che suscitava la curiosità dell’esotismo.
Ma ora, i viaggiatori – con barba e senza - verso continenti, culture diverse, situazioni al limite della sopravvivenza e della sopportazione sono molto più comuni. Anche l’appello mediatico di questo esotismo viene sfruttato: internet è pieno di documentari, reportage, album di foto, ad opera di uno o dell’altro, di un gruppo o dell’altro. Talvolta questi lavori costituiscono un buon materiale etnografico, talaltra non superano il livello della curiosità (anche un po’ sfottente e razzista).
Vero è che il più delle volte, questi viaggi e reportage hanno alla base l’ispirazione o l’informazione fornite da un missionario (o una missionaria), che sono stati punti di riferimento, studiati e incontrati, da cui si è attinta attenzione e capacità di dialogo fra le culture. Ma pochi – forse nessuno – si domanda perché quel missionario si trova in quella zona impervia e non solo per un viaggio, ma per una vita intera.
Vi sono anche media che appiccicano ai missionari un “perché” estraneo, o che a stento centra con il perché originario (l’annuncio di Gesù Cristo): sono quei missionari che vengono presentati o citati per dare manforte alla tesi del giornale o del blog. Nel nostro mondo italiano, diviso fra sovranisti e globalizzanti, si cerca di mostrare – soprattutto sul tema dei migranti – l’inevitabilità dello scontro o dell’incontro con le altre culture e religioni. In tal modo, i sovranisti rischiano di usare le persecuzioni che missionari e cristiani subiscono dall’islam fondamentalista come una “prova” che con l’islam non bisogna convivere, e che i migranti vanno rifiutati, dimenticando che vi sono missionari e fedeli che tessono rapporti di amicizia con persone e gruppi musulmani. Più o meno allo stesso modo, i globalizzanti parlano dell’amicizia e dell’accoglienza con altri popoli, citando ancora una volta i missionari, dimenticando (o nascondendo) i problemi, le fatiche del dialogo culturale, la necessità di integrazione, ecc. In questo senso, i missionari sono sì citati e presenti nei media, ma sfruttati come giustificazione a un’ideologia, a un partitismo cieco, che non vede tutta la realtà che è fatta di fraternità, ma anche di problemi da risolvere e non da nascondere o rifiutare.
A questo tentativo di manipolare e sfruttare, riducendo la testimonianza in un cliché non sfuggono nemmeno i media ecclesiali. Da quando papa Francesco ha detto che a lui piace una “Chiesa in uscita” nelle “periferie esistenziali e geografiche”, si parla spesso soltanto di missionari “di strada”, di impegno verso tribù in estinzione, di campioni nella raccolta di rifiuti differenziati… Ma anche qui si tace sul “perché” un missionario dà la vita, un perché più grande e più infinito di un pur generoso rispetto per l’ecologia.
Io credo che queste riduzioni e strumentalizzazioni nei media laici ed ecclesiali avvengono perché nella Chiesa, nel corpo dei credenti, si sta abbassando e rendendo superficiale il senso della missione, ridotta a cose da fare, a pauperismi, a posizioni ideologiche. Nel Messaggio per la Giornata missionaria mondiale dell’ottobre 2019, papa Francesco ha detto con chiarezza che la missione è una “vita divina, non è un prodotto da vendere – noi non facciamo proselitismo – ma una ricchezza da donare, da comunicare, da annunciare”. Insomma, si è perso il peso “cattolico” (totale e universale) dell’orizzonte della missione (“fino agli estremi confini della terra”). Ciò significa che si è persa anche la grandezza del dono ricevuto da Gesù, che viene quindi ridotto a qualche regoletta morale, a sussulti di galateo, a qualche operetta caritativa che solo alla lontana si ricorda di Cristo. Dai media, dunque, non sono magari assenti i missionari, ma è assente Gesù Cristo, non solo come citazione o modello, ma fonte della vita e dell’azione.
Per un missionario, il dialogo con le culture e con le religioni dei popoli, l’aiuto caritativo, la denuncia sono solo una parte piccolissima e quotidiana di un compito che è far sì che i popoli conoscano l’amore di Gesù Cristo e la sua potenza capace di liberare dai segni di morte che albergano in tutte le culture e situazioni.
Vissuta in questo modo la missione e la sua comunicazione sui media hanno un’importanza fondamentale. Proprio per il desiderio di comunicare la vita di Gesù Cristo, i missionari sono molto attenti alle situazioni in cui sono immersi e svolgono un’opera profetica, capace di percepire i drammi e gli sviluppi possibili in una nazione. Questo supera di molto le riduzioni dell’esotismo e del partitismo.
E siccome Cristo ha vinto la morte, i missionari non si fermano alla denuncia, ma fanno brillare segni di speranza. Solo qualche esempio: secoli prima che il mondo (occidentale e orientale) scoprisse il femminismo, i missionari e le missionarie hanno aperto in Cina e in Asia le prime scuole femminili, in nome della dignità e libertà che Cristo dona alle sue creature. E decenni prima che Mohammed Younus vincesse il Premio Nobel con le sue “banche per i poveri”, i missionari dell’India e del Bangladesh costituivano cooperative di agricoltori per affrontare insieme i disastri dei tifoni, con una misericordia molto più grande di quella che mostrano le banche di Younus verso chi non riesce a ridare indietro i prestiti.
10/06/2019 14:19
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