Crisi economica e sete di denaro le vere ragioni della guerra in Libia
Intanto, continuano i bombardamenti sulla capitale libica. Nella notte i raid aerei hanno colpito il porto di Tripoli e la residenza del colonnello Muammar Gheddafi. Ieri, Catherine Ashton, responsabile della diplomazia dell’Unione europea, si è recata a Bengasi. La baronessa inaugurerà nei prossimi giorni un ufficio dell’Ue che aiuterà il Consiglio nazionale di transizione (Cnt) a sviluppare i "settori della sicurezza, dell'economia, della sanità, dell'educazione e della società civile".
La crisi economica mondiale e il fallimento della campagna Nato in Libia
“Francia, Gran Bretagna e Italia hanno sottovalutato questa guerra – afferma Jean Paul Pougala - Sono partite senza considerare la reale entità degli armamenti e delle forze militari di Gheddafi, soprattutto quelle di terra, e rischiano di uscirne sconfitte e ridicolizzate”.
La propaganda fatta dalla Nato su televisioni, giornali e agenzie di stampa, per mostrare al mondo il successo della missione, nasconde secondo lo studioso una grave situazione di stallo, dovuta alla crisi economica sofferta dai Paesi europei. La prima settimana di guerra è costata ai Paesi Nato oltre 600 milioni di euro e il conflitto potrebbe durare mesi o anni.
“Nei giorni scorsi – racconta Pougala - l’Italia ha lanciato volantini alla popolazione di Tripoli, che invitavano a boicottare Gheddafi, ormai in disfatta. Lo scorso 17 maggio i media hanno aperto con la presunta fuga in Tunisia della seconda moglie del rais, Safiyah e della figlia Aisha. Notizia poi smentita dalle autorità tunisine, ma ignorata dalle agenzie di stampa che l’hanno riportata senza darle troppo risalto”.
Secondo il sociologo se il conflitto aereo continua, Francia, Gran Bretagna e Italia rischiano di restare senza risorse e per vincere dovranno per forza iniziare un’operazione terrestre, che però è vietata dalla risoluzione Onu 1973. “Nelle ultime tre settimane – afferma Pougala - i caccia francesi, sono stati costretti più volte ad atterrare a Malta, per rifornirsi di carburante. I missili che nei giorni scorsi hanno affondato 8 navi dell’esercito libico costano ciascuno oltre 300mila euro. Ogni giorno ne vengono lanciati a centinaia”. Il sociologo fa notare che anche il Consiglio nazionale di transizione si trova da mesi senza risorse e ha chiesto finanziamenti per 3 miliardi di euro, cifra al momento difficile da erogare per i Paesi europei alle prese con tagli e manovre finanziarie per ripianare i conti in rosso.
“Con il pretesto di dare soldi ai ribelli e finanziare la guerra – spiega Pougala – Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono accedere ai 200 miliardi di dollari di fondi sovrani libici, congelati dalle banche perché associati a Gheddafi e alla sua famiglia, ma che in realtà appartengono alla Libia”. Chi vuole impossessarsi del denaro deve violare le norme internazionali. A tutt’oggi Onu e comunità internazionale riconoscono ancora Gheddafi presidente della Libia, mentre il Consiglio nazionale di transizione è stato riconosciuto in via ufficiale solo da Italia, Francia, Qatar, Kuwait, Gambia e Maldive.
Gheddafi personaggio scomodo per Occidente e mondo arabo. L’assenza dei pacifisti
Secondo Pougala, la guerra iniziata con il finto pretesto di difendere i civili, si è trasformata in una licenza per uccidere Gheddafi, violando le risoluzioni Onu e demonizzando un leader e il suo operato senza prove concrete. “A tutt’oggi non ho visto pacifisti criticare la missione Nato – sottolinea il sociologo - dove sono le folle che nel 2003 hanno protestato in tutto il mondo per la guerra in Iraq? Solo la Chiesa si è impegnata nel dare voce a posizioni contrarie alla guerra, compresa la mia, dando una lezione a tutti questi benpensanti”.
Pougala spiega che a tutt’oggi “nessuno ha provato l’uccisione dei 10mila manifestanti da parte del regime, dato su cui si basano la risoluzione Onu 1973, la No Fly Zone e la richiesta di condanna di Gheddafi per crimini contro l’umanità al tribunale dell’Aia. A dare l’informazione sono stati due organi di stampa arabi Al-Jazeera, con sede in Qatar, e Al-Arabya dell’Arabia Saudita”. Per il sociologo entrambi i Paesi hanno interesse a distruggere Gheddafi e la Libia. Il Qatar, insieme ad altri Stati del Golfo, ha storiche ruggini con il regime libico ed è l’unico Paese arabo che sta partecipando ai bombardamenti. Anche l’Arabia Saudita non è mai stata una fan del rais. Nel 2003 al plenum della Lega araba, Gheddafi accusò il re saudita Abdullah di avere permesso che il “sacro suolo della Mecca” fosse violato dai “militari cristiani nella Guerra del Golfo del 1991.
“Gheddafi ha commesso dei crimini – dice Pougala - ma è molto diverso da uno sceicco arabo. Lui aveva un suo progetto per il continente africano e per il suo popolo: la costruzione degli Stati uniti d’Africa e la creazione di una moneta unica, il ‘dinaro d’oro’, da sempre osteggiata dai Paesi occidentali”.
Infatti, le regole imposte dagli ex Paesi colonizzatori impediscono a molti Stati africani di avere delle banche centrali indipendenti.[1] Pougala spiega che il fine di Gheddafi era di azzerare questo tipo di dipendenza creando banche centrali locali guidate nelle loro politiche monetarie da un organo sovranazionale su modello della Banca centrale europea (Bce). Altro aspetto che ha reso il leader scomodo agli occhi del mondo, soprattutto quello arabo, sono le enormi somme di petrodollari investite nei Paesi dell’africa sub-sahariana.
“Gli Stati arabi – spiega Pougala - hanno sfruttato l’Africa nera, molto prima degli europei. A tutt’oggi Gheddafi è l’unico leader musulmano ad aver chiesto scusa agli africani per la schiavitù araba e a ricompensarli, non solo facendo affari a senso unico, ma stimolando le economie locali e contrastando gli interessi della Cina, unico Paese insieme alla Libia che in questi anni ha puntato sulle risorse del continente africano”.
Per lo studioso il futuro della Libia e dei Paesi africani è molto incerto e si allontana la possibilità di una loro reale indipendenza. Tuttavia, se “il progetto degli Stati Uniti d’Africa è sano, nulla potrà fermare questo principio e la sua futura realizzazione”.
[1] Un esempio è l’utilizzo del Franco Cfa (franco della Comunità Francese dell’Africa), obbligatorio per 14 Paesi, un tempo ex colonie francesi. La moneta prevede: un tipo di cambio fissato alla divisa europea; la piena convertibilità delle monete con l'euro garantita dal Tesoro francese; un fondo comune di riserva di moneta estera a cui partecipano tutti i paesi del CFA (almeno il 65% delle posizioni in riserva depositate presso il Tesoro francese, che in tal modo si fa garante del cambio monetario); la partecipazione delle autorità francesi nella definizione della politica monetaria della zona CFA.
11/05/2011