Cresce la protesta tibetana nel Sichuan: altri cinque morti
Le forze cinesi di sicurezza hanno sparato su manifestanti che gridavano libertà per il Tibet e per il ritorno del Dalai Lama. A Serthar imposta la legge marziale. Critiche di Pechino alle notizie sulle uccisioni a Draggo, due giorni fa. Il premier tibetano in esilio critica il silenzio della comunità internazionale. Le “preoccupazioni” degli Stati Uniti, che in febbraio riceveranno in visita il vice-presidente cinese Xi Jinping.
Dharamsala (AsiaNews/Agenzie) – Le forze cinesi di sicurezza hanno ucciso almeno cinque tibetani e ferito altri 40 nel secondo giorno di proteste scoppiate nella prefettura di Kardze (Ganzi, in cinese), nella provincia del Sichuan. Secondo fonti tibetane, la polizia ha sparato contro i dimostranti a Serthar (Seda, in cinese), dove è stata imposta la legge marziale. “I tibetani – dice una fonte – sono confinati nelle loro case e la polizia spara su chiunque si avventuri nelle strade”.
I morti e i feriti di Serthar si aggiungono ai sei morti e agli oltre 30 feriti, anch’essi dimostranti, che la polizia ha colpito a Draggo (Luhuo, in cinese), sempre nel Sichuan. Secondo fonti locali, “12 di loro sono in gravissime condizioni, con un proiettile nel cranio” (nella foto uno dei dimostranti, ucciso a Draggo).
Le manifestazioni sono tutte iniziate con la distribuzione di volantini che esaltavano le auto-immolazioni di giovani tibetani e con slogan sulla libertà del Tibet e sul Dalai Lama. In quasi un anno almeno 16 persone – in maggioranza giovani monaci – si sono dati fuoco per criticare la politica cinese sul Tibet.
Il governo di Pechino ha criticato le informazioni sugli scontri avvenuti a Draggo, dichiarando che in realtà la polizia è intervenuta perché una folla ha assaltato negozi e una stazione di polizia.
Lobsang Sangay, premier del governo tibetano in esilio, si appella alla comunità internazionale perché “intervenga a fermare nuovi spargimenti di sangue”. “Per quanto tempo ancora – ha detto – e quante altre tragiche morti sono necessarie prima che il mondo assuma una ferma posizione morale? Il silenzio della comunità mondiale manda alla Cina un chiaro messaggio: che le sue misure repressive e violente per contenere le tensioni nelle aree tibetane sono accettabili”.
Finora, solo gli Stati Uniti hanno espresso “serie preoccupazioni” sulle violenze nel Sichuan. Washington si prepara a ricevere la visita del vice-presidente cinese Xi Jinping nel prossimo febbraio.
Maria Otero, coordinatore speciale per gli Usa sul dossier tibetano, ha dichiarato che la Cina dovrebbe riprendere i dialoghi con il Dalai Lama e permettere l’accesso in Tibet a giornalisti stranieri, diplomatici e osservatori.
I dialoghi fra il Dalai Lama e Pechino sono a un punto morto. La Cina continua ad accusare il leader spirituale di voler dividere la patria e rivendicare l’indipendenza del Tibet. Il Dalai Lama, che ha rifiutato il suo ruolo politico, chiede invece un’autonomia culturale e religiosa della regione. Nei mesi scorsi Pechino ha anche accusato il Dalai Lama di spingere i giovani al suicidio dandosi fuoco, un gesto contrario al buddismo. In realtà il capo spirituale dei tibetani, si oppone alle auto-immolazioni, facendo notare che la disperazione dei giovani è frutto della politica di illogica repressione della Cina.
I morti e i feriti di Serthar si aggiungono ai sei morti e agli oltre 30 feriti, anch’essi dimostranti, che la polizia ha colpito a Draggo (Luhuo, in cinese), sempre nel Sichuan. Secondo fonti locali, “12 di loro sono in gravissime condizioni, con un proiettile nel cranio” (nella foto uno dei dimostranti, ucciso a Draggo).
Le manifestazioni sono tutte iniziate con la distribuzione di volantini che esaltavano le auto-immolazioni di giovani tibetani e con slogan sulla libertà del Tibet e sul Dalai Lama. In quasi un anno almeno 16 persone – in maggioranza giovani monaci – si sono dati fuoco per criticare la politica cinese sul Tibet.
Il governo di Pechino ha criticato le informazioni sugli scontri avvenuti a Draggo, dichiarando che in realtà la polizia è intervenuta perché una folla ha assaltato negozi e una stazione di polizia.
Lobsang Sangay, premier del governo tibetano in esilio, si appella alla comunità internazionale perché “intervenga a fermare nuovi spargimenti di sangue”. “Per quanto tempo ancora – ha detto – e quante altre tragiche morti sono necessarie prima che il mondo assuma una ferma posizione morale? Il silenzio della comunità mondiale manda alla Cina un chiaro messaggio: che le sue misure repressive e violente per contenere le tensioni nelle aree tibetane sono accettabili”.
Finora, solo gli Stati Uniti hanno espresso “serie preoccupazioni” sulle violenze nel Sichuan. Washington si prepara a ricevere la visita del vice-presidente cinese Xi Jinping nel prossimo febbraio.
Maria Otero, coordinatore speciale per gli Usa sul dossier tibetano, ha dichiarato che la Cina dovrebbe riprendere i dialoghi con il Dalai Lama e permettere l’accesso in Tibet a giornalisti stranieri, diplomatici e osservatori.
I dialoghi fra il Dalai Lama e Pechino sono a un punto morto. La Cina continua ad accusare il leader spirituale di voler dividere la patria e rivendicare l’indipendenza del Tibet. Il Dalai Lama, che ha rifiutato il suo ruolo politico, chiede invece un’autonomia culturale e religiosa della regione. Nei mesi scorsi Pechino ha anche accusato il Dalai Lama di spingere i giovani al suicidio dandosi fuoco, un gesto contrario al buddismo. In realtà il capo spirituale dei tibetani, si oppone alle auto-immolazioni, facendo notare che la disperazione dei giovani è frutto della politica di illogica repressione della Cina.
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