Consiglio di sicurezza Onu sempre più diviso sulla crisi siriana
Damasco (AsiaNews/ Agenzie) - In attesa della risposta del presidente siriano Assad alla proposta di un cessate il fuoco dell'inviato Onu Kofi Annan, il Consiglio di sicurezza Nazioni Unite si divide ancora una volta sulla crisi in Siria. E ciò dopo i recenti appelli di Ban ki moon all'unità. Intanto, il bilancio delle scontri sale a 8mila morti e 230mila sfollati.
Ieri, Hillary Clinton, segretario di Stato Usa e Serjey Lavrov, ministro degli Esteri russo si sono scontrati sulle strategia da utilizzare per costringere Bashar al-Assad a cedere il potere e porre fine a un anno di continui spargimenti di sangue.
Stati Uniti, Unione Europea, Lega Araba e Turchia si sono accordati per una risoluzione che condanni le violenze del regime contro i civili, che aprirebbe alla possibilità di un intervento armato nel Paese. Secondo il segretario di Stato Usa, il governo Assad non è più un interlocutore credibile. La Clinton ha definito ciniche e barbare le uccisioni di centinaia di civili, fra cui donne e bambini, avvenute a Homs a margine dei colloqui con Annan e diffuse dall'opposizione attraverso internet.
Citando quanto sta accadendo in Libia dilaniata dalle uccisioni sommarie degli estremisti islamici, il ministro degli Esteri russo, appoggiato dalla Cina, sostiene invece che un intervento armato o l'eventuale sostegno al Free Syrian Army (Fsa) darebbe adito a vendette e violenze arbitrarie contro chi non è d'accordo con i ribelli. "La priorità - ha affermato Lavrov - è far cessare qualsiasi tipo di violenza e inviare aiuti umanitari alla popolazione". Secondo il diplomatico anche l'Fsa ha commesso atroci torture contro le forze lealiste e deve prendersi le sue responsabilità.
Secondo gli esperti, al Qaeda ha fatto da mesi il suo ingresso in Siria, reclutando elementi giunti nel Paese attraverso un lungo percorso che ha avuto come ultima tappa la Turchia. Nel luglio 2011, Ankara ha ammesso di aver contribuito all'addestramento degli ex militari di Assad e dei ribelli che oggi compongono l'Rfa. A infoltire le fila dell'esercito paramilitare vi sarebbero anche le tribù sunnite stanziate sul confine con l'Iraq. In un'intervista al Daily Telegraph, un leader sunnita irakeno ha raccontato di aver inviato centinaia di uomini e decine di migliaia di dollari a sostegno dell'Rfa, negando però qualsiasi contatto con al Qaeda. "Anche noi desideriamo libertà e democrazia - afferma il leader sunnita - così, quando il governo siriano ha iniziato ad attaccare le nostre tribù abbiamo deciso di sostenere la causa dei ribelli". Lo sceicco è un ex membro di spicco del Sahwa, i gruppi armati che nel 2006 hanno iniziato a dare la caccia ai membri di al-Qaeda provenienti dall'Arabia Saudita, dallo Yemen e da altri Paesi arabi, responsabili di decine di attacchi contro i civili irakeni.
Tuttavia l'ipotesi di un intervento armato senza precise condizioni lascia perplessi gli stessi attivisti siriani. Wissam Tarif è un dissidente siriano residente a Beirut e leader delle manifestazioni pacifiche che hanno dato il via alla rivolta siriana nel marzo 2011. Egli spiega che l'eventuale militarizzazione del Paese non può essere fatta senza prima individuare una leadership civile. La maggioranza dei posti chiave dell'esercito e dell'amministrazione statale sono ancora in mano agli Alawiti e in caso di vittoria armata dei ribelli sunniti le vendette sarebbero all'ordine del giorno. "L'ingresso dell'Fsa come forza liberatrice - spiega - farebbe diventare la Siria come il Ruanda. I ribelli inizierebbero ad uccidere tutti gli alawiti e le persone sospettate di legami con il regime". Una via possibile è un colpo di Stato interno alla minoranza alawita. "Il regime - afferma - ha già dato segni di cedimento, molti dei suoi alleati lo stanno abbandonando, come ad esempio i drusi". Tuttavia, Tarif nota che molti uomini d'affari sunniti sostengono ancora gli Assad e ciò vale anche per esponenti di altre minoranze. La comunità internazionale deve iniziare a contattare e sostenere queste personalità per spingerle ad abbandonare il regime.