Conferenza Onu sul clima: un fragile accordo evita un completo insuccesso
Hong Kong (AsiaNews/Agenzie) – La diplomazia mondiale saluta con favore e sollievo l’accordo raggiunto in extremis alla XVI Conferenza delle Nazioni Unite sul clima, conclusasi ieri a Cancun (Messico). L’accordo è soprattutto programmatico e non sarà facile concordare i dettagli, ma era alto il timore di un nuovo fallimento, dopo il “nulla di fatto” del 2009 a Copenhaghen. Ancora una volta i Paesi più potenti e maggiori inquinatori, come Stati Uniti e Cina, sono stati poco collaborativi nella ricerca di una soluzione che chiederebbe loro di tagliare in modo drastico le emissioni inquinanti.
L’accordo è frutto di una no-stop finale di 2 giorni ed è stato approvato da tutti i circa 200 Paesi presenti, esclusa la sola Bolivia che lo ritiene insufficiente e ha preannunciato il ricorso al Tribunale Internazionale dell’Aja. Gli altri delegati e gli ambientalisti, viste le minime aspettative della vigilia, lo hanno salutato come “bilanciato” o “migliore del previsto”. Questo “Accordo di Cancun” sollecita “profondi tagli” nelle emissioni di anidride carbonica responsabili dell’effetto serra, con l’obiettivo di ridurre l’aumento delle temperature a non più di 2 gradi centigradi sopra i livelli pre-indusrtriali; conferma il Protocollo di Kyoto e ai Paesi ricchi è chiesto di ridurre le emissioni dal 25 al 40% entro il 2020 rispetto ai livelli del 1990 (ma questo non coinvolge gli Usa, che non firmarono l’accordo di Kyoto), anche se si tratta di indicazioni di massima. Sono pure concordati interventi per ridurre la distruzione delle foreste.
Ma non ci sono stati progressi sulla questione-cardine: il divario tra i Paesi ricchi industrializzati e quelli in via di sviluppo. Questi ultimi hanno bisogno di aumentare la produzione per uscire dalla povertà e svilupparsi, ma lo fanno ricorrendo a fonti energetiche economiche e di facile tecnologia ma molto inquinanti come il carbone e stanno diventando tra i Paesi più inquinanti (come la Cina). I Paesi in via di sviluppo osservano che l’attuale inquinamento è soprattutto responsabilità dei Paesi già sviluppati e chiedono esenzioni dai limiti per le emissioni, oppure sostanziosi aiuti economici e tecnologici per sviluppare fonti di energia pulita, assai più costose e complesse.
Per questo molti Paesi emergenti preferiscono rimandare ogni impegno cogente, per proseguire intanto il proprio sviluppo. Xie Zhenhua, capo della delegazioni della Cina (maggior produttore di gas serra), ha espresso “soddisfazione” per il risultato, anche se non nasconde che “i futuri negoziati continueranno a essere difficili”. Huang Huikang, rappresentante del ministero cinese degli Esteri, ha salutato l’accordo come “con probabilità il migliore possibile ora”.
Soddisfatto pure il delegato Usa Todd Stern, che considera il documento “non perfetto, ma di certo una buona base per ulteriori progressi”.
Esperti osservano che saranno difficili effettivi progressi finché i Paesi più inquinanti, anzitutto Stati Uniti e Cina, non assumeranno impegni precisi. Anche a Cancun si è ripetuto il reciproco stallo, con Washington che chiede a Pechino di ridurre le emissioni inquinanti e la Cina che, insieme all’India, da tempo ribadisce che non può accettare limiti se questo significa frenare lo sviluppo economico e lasciare decine di milioni di persone nella povertà.
Per questo l’Accordo prevede che anche i Paesi in via di sviluppo siano soggetti ai limiti per le emissioni e alla verifica internazionale, ma rinvia queste misure a quando riceveranno adeguati aiuti dai Paesi sviluppati. Appare ancora lunga e incerta la strada perché si passi dalle affermazioni di principio agli impegni precisi. Intanto è stato istituito il Green Climate Fund, per gestire le somme destinate dai Paesi ricchi a quelli più colpiti dai cambiamenti climatici. Stati Uniti, Unione europea e Giappone doneranno 100 miliardi di dollari annui, ma dal 2020.
Tutto è rinviato alla Conferenza del 2011 in Sudafrica.
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