Condanna a morte e alla prigione per tre attivisti tibetani. Pechino impone silenzio ai media
La condanna a morte è sospesa; carcere per 24 e per 16 anni. Il processo, a porte chiuse, si è svolto a novembre e solo nei giorni scorsi è circolata la notizia. Attivista di Tchrd: la Cina processa “in gran segreto” e i tibetani hanno paura a diffondere le notizie nel timore di ritorsioni.
Dharamsala (AsiaNews) – Il tribunale popolare di Kardze ha condannato tre tibetani per aver “fomentato il separatismo” e “disturbo dell’ordine sociale”, con pene che variano dalla condanna a morte, a 16 anni di galera. I giudici hanno emesso la sentenza il 17 novembre scorso, ma la notizia è filtrata solo in questi giorni. Attivisti per i diritti umani in Tibet spiegano che le autorità svolgono i processi “in gran segreto” per impedire il propagarsi delle informazioni e gli stessi tibetani sono “molto più cauti” nell’inviare notizie all’esterno, nel timore di ritorsioni delle autorità cinesi.
Il 17 novembre la Intermediate People’s Court della Prefettura autonoma tibetana (Tap) di Kardze, ha condannato a morte – ma la pena è sospesa per due anni – Pema Yeshi, di 28 anni. I giudici hanno comminato l’ergastolo a Sonam Gonpo, di 24 anni e 16 anni di prigione a Tsewang Gyatso, alias Tsok Tsok, di 32 anni. Lo rivelano fonti del Tibetan Centre for Human Rights and Democracy (Tchrd), secondo cui i tre tibetani provengono da Thangkyi, città della contea di Nyarong (Xinlong xian, nella dicitura cinese), provincia del Sichuan. A carico dei tre condannati le accuse di aver “fomentato il separatismo” e “disturbo dell’ordine sociale”.
La notizia del loro arresto era stata pubblicata il 18 marzo 2009 sul quotidiano Ganzi Daily, che faceva risalire il momento del fermo all’11 dello stesso mese. Essi avrebbero – secondo quanto riportato nell’articolo – distribuito volantini inneggianti all’indipendenza del Tibet e incendiato gli edifici governativi di Thangkyi, causando ingenti danni.
Per cinque mesi le famiglie non hanno saputo più nulla della loro sorte fino all’agosto successivo. I tre tibetani, in realtà, erano rinchiusi nel carcere di Chengdu e il 17 novembre hanno subito il processo. Il dibattimento in aula si è svolto a porte chiuse e senza il minimo rispetto dei diritti umani, fra i quali vi è anche il diritto alla difesa dell’imputato. Il 10 dicembre, infine, funzionari locali hanno avvisato i parenti della condanna.
Tashi Choephel Jamatsang, membro di Tchrd, spiega ad AsiaNews che “solo la scorsa settimana abbiamo avuto la conferma della sentenza” perché il processo si è tenuto “in gran segreto nel novembre del 2009” e la famiglia “è stato informata solo un mese più tardi”. L’attivista aggiunge che “i tibetani sono molto cauti nell’inviare informazioni” all’estero, perché “troppi sono stati arrestati con l’accusa di tradimento” per aver “diffuso segreti al mondo esterno”. “Con questo motivo – conclude – si spiega il ritardo nella pubblicazione della notizia”, ma resta la “preoccupazione” per la sentenza e le condizioni del popolo tibetano.
Secondo dati di Tchrd sono migliaia i tibetani detenuti dalle autorità cinesi, senza che siano formulate accuse specifiche a loro carico. Almeno 334 i condannati dai tribunali con pene detentive che variano da pochi mesi alla pena capitale. E nella maggioranza dei casi, gli imputati non hanno diritto alla difesa e i processi si svolgono in gran segreto.(NC)
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