Commercio e politica estera, il “bivio” di Hu Jintao negli Usa
A questi sono stati offerti 20 dollari, e ora iniziano a lamentarsi per l’ingiustizia del trattamento. Alcuni hanno già deciso che non intendono usare denaro proprio per pagarsi questa gita. Qualcuno lo farà, ma qualcun altro si “ammalerà”. Al di là di tutto questo, le cerimonie di benvenuto ai leader cinesi non sono più quelle di una volta, e questo si spiega con il calo dell’influenza della fazione cinese nella sezione Affari stranieri degli Usa. Inoltre il presidente Hu ha dichiarato tempo fa che non perderà più tempo o denaro per attività di benvenuto, quindi sarebbe comprensibile che altri facessero lo stesso con lui. Ma leccare i piedi è importante per molte persone: dobbiamo sentirci tristi per loro.
Mettendo da parte questi aspetti divertenti, ci sono alcuni lati importanti nella visita in America di Hu Jintao. Sicuramente la differenza maggiore rispetto al passato è che, questa volta, il presidente cinese deve fare delle concessioni e impegnarsi in negoziati sostanziali: glielo impongono enormi pressioni interne ed esterne. Non riuscirà a uscirne indenne con un semplice spettacolino. Di conseguenza è sicuro che, su qualche terreno, deve cedere. L’unico dubbio riguarda cosa verrà messo sul tavolo e con quanta energia. Non ci sono soltanto gli americani: anche i cinesi (intendo quelli che vivono nel Paese) sperano in alcune concessioni. Concessioni sul tasso di cambio della valuta e sul sistema di commercio estero sono questioni legate agli interessi di cinesi e americani: se uno prospera, anche l’altro prospera. Ma se uno perde, porta con sé anche l’altro. Questa volta, gli interessi della media delle due popolazioni coincide.
Quali concessioni, dunque, può fare Hu? Entrambe le parti sanno che il primo punto riguarda le concessioni economiche. Ci sono troppe pressioni da parte del popolo americano, che vuole vedere un apprezzamento della valuta cinese e la rimozione delle restrizioni imposte da Pechino alle importazioni. Queste concessioni sono quasi obbligatorie. Prima della visita, lo yuan è stato apprezzato di qualche punto: si tratta di un regalino all’America che, però, non si avvicina alle aspettative di Washington ed è inaccettabile. Può essere considerato soltanto un inizio, la cui prosecuzione dipende dai dialoghi fra i due. Quindi che scelta ha il presidente? Sostanzialmente, ne ha due.
La prima prevede le minori concessioni economiche possibili accompagnate però da grandi concessioni nell’ambito della politica estera americana: Corea del Nord, programma nucleare iraniano, questione pakistana e via dicendo. Questo significa che, se Hu non vuole vendersi qualche amico, deve vendersi un po’ di sovranità. In questo modo non si risolve nulla, ma semplicemente si dilaziona la soluzione: e i problemi passerebbero da Hu Jintao a qualcun altro. In ogni caso, a lui personalmente non interessa molto: dal prossimo anno il mal di testa colpirà un altro.
Nel perseguire questa strategia si ottiene il risultato di non offendere i grandi capitalisti, cinesi e stranieri. Ma, dopo le sue dimissioni, questi capitalisti si ricorderanno di lui? Saranno disposti ad aiutarlo? È in grado, come alcuni politici americani, di avere in anticipo delle rassicurazioni? Se non lo è, probabilmente si ritroverà senza la gratitudine di alcuno, dato che sarà il suo successore a concedere quello che lui non vuole concedere oggi. Se si comporta in altro modo non sarà inviso soltanto agli Stati Uniti, ma anche a chi verrà indicato come suo successore alla guida del regime comunista. Da quel momento nessuno ricorderà che è stato Hu a mantenere per un altro anno le condizioni economiche attuali. I capitalisti che ne beneficieranno non si ricorderanno di lui, e il suo successore sarà molto risentito per il danno creato. Tuttavia, dato il carattere rigido e inflessibile di Hu Jintao, è probabile che sceglierà un ruolo difficile e condannato a rimanere senza un grazie.
Se davvero decide per questa strategia di durezza, allora metterà all’angolo gli americani. I “falchi” del Congresso si alzeranno in piedi, e verrà dichiarata una guerra commerciale improntata sulle tariffe di importazione. Per proteggere i propri interessi, il governo americano non permetterà più alcuna politica favorevole al commercio cinese, che garantisca un beneficio per Pechino a danno degli altri. Questo atteggiamento è sia ragionevole che utile. Nessuno potrebbe impedire agli Usa dal proteggere i propri interessi con barriere tariffarie. E da allora, le esportazioni cinesi inizieranno a calare rapidamente senza tuttavia i benefici di una rivalutazione valutaria. Allo stesso tempo, l’inflazione e la mancanza di beni di prima necessità nel mercato interno costringeranno la Cina a aumentare il volume delle importazioni.
Di conseguenza, l’unica differenza in tutto questo è che non ci sarà un periodo di prova per sistemare in maniera normale la struttura economica. Tutto, inclusa la tempistica, sarà controllato dagli americani e la Cina perderà la possibilità di controllare il proprio sentiero economico. In sostanza, sopravvivrà soltanto basandosi sugli altri. Chiunque gli succederà sarà molto sfortunato e molto malvisto. Come potrebbero i successori non odiare Hu Jintao? E in effetti non saranno soltanto i caporioni del partito a odiarlo, ma anche la media della popolazione. E questo perché si cura soltanto degli interessi dei grandi capitalisti, perdendo opportunità per la nazione e per il popolo e provocando l’accerchiamento della Cina. Ottenuti questi pessimi risultati, anche i grandi capitalisti inizieranno a odiarlo, dato che non potranno più ottenere gli enormi profitti cui sono abituati. In conclusione, la strategia di fare concessioni in politica estera per evitare di farne in politica economica è una decisione che colpisce gli altri e non beneficia la Cina.
Se Hu avesse un gruppo di assistenti composto da saggi, dovrebbe optare per la seconda opzione. Che prevede la possibilità di fare concessioni in campo economico, guidando la barca con la corrente: permettere la rivalutazione dello yuan e aprire relazioni commerciali in cambio di politiche favorevoli nel campo delle tecnologie. Questa scelta aiuterebbe moltissimo la ristrutturazione economica della Cina e l’avanzamento tecnologico del Paese, dando nel contempo alla nazione la possibilità di espandere gradualmente il mercato interno. La società americana troverà questa decisione accettabile. E credo che gli americani permetterebbero persino a Hu di enunciare i propri successi una volta ritornato in Cina. Come fece Deng Xiaoping che, dopo una visita negli Usa si vantò dei risultati ottenuti pur avendo – nei fatti – compiuto un viaggio mediocre. In effetti, il regime comunista cinese è stato in grado di guadagnare altri 30 anni di vita proprio grazie all’abilità di Deng nel trattare in maniera corretta gli interessi americani.
Probabilmente l’unico gruppo deluso da questa decisione sarebbe quello dei giovani “cinici patrioti”. Questo modello di beneficiare entrambi i lati non corrisponde ai loro sogni di espansione economica. Questo è un gruppo molto particolare, data la povertà della società e le loro sfortune personali. Non hanno un luogo dove esprimere la loro rabbia e oltre tutto non hanno un modo per incanalare il proprio risentimento contro le ingiustizie sociali. Quindi si esprimono con il patriottismo e con il razzismo, temi che il governo difficilmente può punire (come in ogni società). Quando l’economia va male e addirittura peggiora, aumenta il livello di xenofobia. Nella Cina antica, avvenivano rivolte e cambiamenti dinastici.
Soltanto i pensierini speranzosi del governo possono permettere al regime di pensare che questi patrioti siano una chiave per mantenere il controllo sulla società. Perché la verità è che, alla fine, si spareranno sui piedi. Vorrei che i prossimi leader pensassero con molta attenzione a queste cose.