Cina immorale nei suoi traffici con il Pakistan
di Deep Datta-Ray
Nel trattare con gli Stati Uniti per una nuova fornitura atomica, l’India ha giocato secondo le regole della morale ed ha vinto. I rapporti fra Pechino e il Pakistan, invece, infrangono trattati internazionali ed etica comune, e sono pericolosi e illegali.
Londra (AsiaNews) – Da almeno tre anni, il governo pakistano ha ripreso colloqui segreti con la Cina tesi a ottenere nuove forniture nucleari. Gli accordi firmati dal presidente Zardari a Pechino lo scorso maggio, che prevedono il trasferimento di reattori e materiali fissili dalla Cina al Pakistan, sono stati condannati dalla comunità mondiale. Essi infrangono diversi trattati internazionali e mettono in pericolo il Trattato di non proliferazione nucleare. Pubblichiamo questa riflessione del prof. Deep Datta-Ray.
I conoscitori occidentali dell’India potrebbero definire “crudo nazionalismo” la condanna di Delhi della proposta cinese di vendere due reattori nucleari al Pakistan. Se questo avvenisse sarebbe una delusione e, se non altro, dimostrerebbe l’inconscia arroganza culturale di coloro che, da fuori, insistono nel considerare gli asiatici incapaci di fare altro che non sia scimmiottare le categorie straniere. Non è la geopolitica o il nazionalismo che scatenano le critiche, ma il patto stesso e i meccanismi della sua promulgazione.
Inoltre, rendono ridicola la moralità che deve sottolineare anche il più pragmatico degli accordi, se si vuole renderli credibili. Anche se opaco nella struttura, un recente articolo dell’agenzia di stampa ufficiale cinese Xinhua razionalizza la diplomazia di Pechino attribuendo le critiche internazionali al patto ai “doppi standard” dei “tycoon nucleari dell’Occidente”. Secondo l’articolo, gli Stati Uniti hanno aperto il “vaso di Pandora” nucleare siglando l’Accordo 123 con l’India, e sostiene che quell’accordo sia identico a quello sino-pakistano.
Questa è la linea di confine che segna la rottura nella moralità, perché ignora gli scopi totalmente diversi e i processi trasparenti che invece rendono accettabili le negoziazioni indo-americane. Il diavolo si annida nel dettaglio. E per pianificare i dettagli è necessario identificare il contesto in cui si trovano, che poi è quello del Trattato di non proliferazione. Esso proibisce ai firmatari di portare avanti il commercio nucleare con nazioni che non hanno armi nucleari.
Anche se è stato scritto con lo scopo specifico di tenere l’India fuori dal mercato atomico, gli indiani lo hanno rispettato; anche oggi, gli Stati Uniti partecipano soltanto al programma nucleare civile di Delhi, su una base che divide attentamente i piani delle installazioni civili da quelle militari. L’India deve anche affrontare il Gruppo di fornitura nucleare, che ha bandito il commercio atomico con l’India perché – in quanto Stato non inserito nel Trattato di non proliferazione – Delhi ha un arsenale nucleare.
Gli Stati Uniti hanno iniziato un processo di cambiamento delle regole stabilite, e ha vinto la sua scommessa quando 44 nazioni del Gruppo hanno accettato di garantire una deroga. Il punto non è che siano state cambiate le regole, ma il processo e il dibattito che hanno messo in pericolo il cambiamento. Alla fine del processo, nessuno dei membri ha potuto contestare l’argomento americano secondo cui l’India è “un Paese di cui fidarsi”.
E questo perché Delhi non ha mai acquistato materiale atomico, non ha mai traformato un progetto civile in uno militare o ha mai trasferito armi o tecnologia nucleare in maniera illegale. Anche se, non avendo firmato il Trattato, non è vincolata dai suoi limiti: in poche parole, l’India è stata impeccabile. Il compasso morale indiano, mantenuto dritto con attenzione sin dagli anni Quaranta (data di inizio del programma nucleare), assicura al Paese una legittimazione del suo status nucleare de facto. Ottenuto alle proprie condizioni.
La diplomazia nucleare sino-pakistana, invece, presenta dei punti di contrasto sia dal punto di vista procedurale che dal punto di vista degli obiettivi. A differenza dei negoziati indo-americani, i negoziati fra Pechino e Islamabad sono segreti. Non c’è alcun segnale di un piano che assicuri che il materiale e la tecnologia non siano girate a parti terze o a un programma bellico. E non ci sono segnali di un approccio verso il Gruppo per avere una deroga.
Gli indiani si sono garantiti il diritto al commercio nucleare perché hanno fatto la cosa giusta; la diplomazia nucleare pakistana ha invece una storia enorme, e ben documentata, di proliferazione che ha coinvolto non un gruppetto di scienziati fuori controllo, ma lo Stato. Qui non si parla di chi debba essere coinvolto nel commercio nucleare, ma di un Paese (il Pakistan) che ha più volte ignorato tutte le convenzioni internazionali, ha abdicato al proprio senso di responsabilità e ha più volte mentito sulle proprie azioni clandestine.
Inoltre l’assenza (almeno fino a oggi) di un piano di separazione rende ogni nuovo trasferimento illegale e non etico. La Cina, membro del Gruppo, non può commerciare con il Pakistan, dato che questo non è uno Stato riconosciuto come nucleare; inoltre, nessuno ha dato a Islamabad una deroga. Non è dunque assurdo ritenere che l’intero patto sia mantenuto così tanto segreto proprio a causa di questi due fattori.
Per prima cosa, la Cina sta infrangendo i propri obblighi; inoltre, Pechino intende rifornire una nazione che il Gruppo non ritiene abbastanza affidabile per fornire una deroga. Oltre al fatto che la condotta e gli scopi dei due negoziati sono totalmente diversi, va considerato che sempre diverse sono le premesse su cui poggiano. L’attività nucleare indiana si basa sulla moralità perché, anche quando ha sfidato le convenzioni internazionali, Delhi l’ha fatto apertamente, con chiarezza procedurale e verso lo scopo ultimo del disarmo.
Questo non è avvenuto fra Cina e Pakistan, che giustifica il trasferimento di reattori sulla base di un trattato segreto firmato negli anni Ottanta. Il documento con cui la Cina si è unita al Gruppo non dice nulla sulla fornitura di reattori al Pakistan e, mentre Islamabad sembra intenzionata soltanto a pareggiare i rapporti di forza nel sub-continente, Pechino sembra voler guardare più lontano. In poco tempo India, Cina e Pakistan puntano a trasformare l’attuale ordine internazionale.
Eppure, soltanto l’India opera all’interno dei tracciati internazionali che intende cambiare, vincendo la propria battaglia senza sotterfugi. Ed è questo che rende l’India un Paese morale e un esempio straordinario per il mondo.
* L’autore è uno storico che risiede a Londra. La sua mail è dattaray@gmail.com
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