Celso Ba Shwe: 'Io vescovo tra gli sfollati nella foresta birmana'
Costretto nel novembre 2023 ad abbandonare la cattedrale a causa degli scontri armati, il vescovo di Loikaw continua a prendersi cura dei fedeli della diocesi, oggi sparpagliati in 200 campi profughi in aree remote. Ad AsiaNews racconta il dramma dei giovani che si uniscono ai combattimenti e riflette su come queste comunità nello Stato Kayah, pur nelle loro grandissime difficioltà, oggi gli ricordino i primi cristiani: "La Chiesa è dove le persone condividono e si amano".
Roma (AsiaNews) - Le parole di papa Francesco che ha offerto rifugio ad Aung San Suu Kyi in Vaticano chiedendone la scarcerazione, hanno riacceso ieri i riflettori del mondo sulla guerra in Myanmar. Una tragedia dimenticata, che dura da più di tre anni, e che ha il volto anche di una Chiesa birmana che vive da sfollata tra gli sfollati. A raccontarlo ad AsiaNews nelle sue sofferenze ma anche nella sua forte testimonianza di vita cristiana - proprio in questi giorni - è stato mons. Celso Ba Shwe, 60 anni, il vescovo di Loikaw, capoluogo dello Stato Kayah.
La scorsa settimana ha partecipato a Roma al corso di formazione per i vescovi di recente nomina organizzato ogni anno dal Dicastero per l'evangelizzazione; e ora si appresta a tornare tra gli sfollati della sua comunità nella foresta birmana. Dal novembre dello scorso anno, infatti, lui stesso è stato costretto ad abbandonare il complesso della cattedrale di Cristo Re, occupato dall'esercito. Così oggi vive con i rifugiati interni dello Stato Kayah, le cui abitazioni - perlopiù tende e alloggi di fortuna in bambù - di recente sono stati anche spazzati via dalle piogge portate dal tifone Yagi, in una nuova ulteriore prova.
“Nessuno vive più a Loikaw - racconta ad AsiaNews -. La maggior parte degli edifici sono stati bruciati e distrutti, soprattutto nelle aree cristiane. In molte parti della città non si può tornare anche a causa delle mine antiuomo e degli ordigni inesplosi. Solo i membri delle PDF tornano per cercare di rintracciare le loro famiglie, ma anche per loro è pericoloso”. Il riferimento è alle Forze di difesa popolare (People's Defence Forces, PDF): descritte come il braccio armato del Governo di unità nazionale in esilio, si tratta di milizie divise sul territorio in brigate. Nate nell'aprile 2021 - dopo il colpo di Stato militare che ha portato al conflitto civile - sono composte da giovani e giovanissimi, anche cristiani, che prima della guerra, in tutto lo Stato Kayah, erano oltre 90mila, su una popolazione di 350mila abitanti.
“Stanno combattendo per il loro futuro e la loro libertà - commenta il vescovo -. Sono stati testimoni del progresso democratico durante gli anni di Aung San Suu Kyi tra il 2015 e il 2020. Ora i giovani sanno che esiste uno spazio in cui possono esprimere le loro libertà, sono convinti di lottare per la giustizia. E non solo i giovani. Nessuno di noi vuole tornare ai tempi della dittatura militare”. Tuttavia, continua il presule, “anche i giovani sanno che la guerra non è la soluzione per ottenere uno Stato democratico. Abbiamo bisogno del dialogo. Quello che vuole e che chiede la Chiesa è che le PDF si presentino come un gruppo unito. Un giorno forse. Per adesso è ancora molto difficile”.
L’idea di uno Stato federale in Myanmar è sempre sullo sfondo, ma complicata dal fatto che nei territori liberati dall’esercito, le milizie etniche (gruppi armati che, a differenza delle PDF, combattono contro il governo centrale dai tempi dell’indipendenza dall’impero britannico nel 1948 per una maggiore autonomia nelle loro aree) hanno dato vita ad amministrazioni in contrasto con la volontà della popolazione civile. “Nello Stato Kayah, almeno 600 giovani sono finora morti nei combattimenti”, afferma con tristezza mons. Ba Shwe, originario del villaggio di Moblo, parte della diocesi di Loikaw. “Eppure le famiglie sostengono le PDF: nei campi per sfollati a molte persone manca il cibo, ma tutti mettono qualcosa da parte per i combattenti. Sono orgogliosi dei loro figli e pregano per il loro successo e la loro sicurezza”.
La comunità cristiana di Loikaw è sparpagliata in 200 campi profughi nella foresta, dove secondo dati dell'anno scorso vivono complessivamente circa 150mila persone. “Gli sfollati vivono lontano dai villaggi, nelle aree remote dove non c’è conflitto”. dice il vescovo, ma si corregge subito: “Non possiamo davvero dire che non ci sia conflitto, perché un bombardamento o un attacco di artiglieria potrebbe arrivare in qualunque momento”.
“Le persone che vivono qui dipendono dalle donazioni internazionali e dalla bontà dei residenti locali che li ospitano. Alcuni riescono ad avere in prestito della terra per far crescere riso o verdure. Ma è sempre rischioso, chiunque può essere colpito dagli spari dell’esercito in qualunque momento”. I bambini vivono la situazione più drammatica. A volte anche i ragazzi dell’età delle medie si uniscono alla lotta armata. “Tra la pandemia e la guerra civile, alcuni bambini non vanno a scuola da cinque anni”, continua ancora mons. Celso, per tre anni amministratore apostolico della diocesi prima di essere ordinato vescovo il 29 giugno scorso.
Nell’ultimo anno ha sostenuto la creazione di piccole scuole informali tra gli sfollati nel tentativo di formare la generazione che dovrà ricostruire il Paese: “Siccome temiamo che la giunta militare possa bombardare i luoghi in cui si riuniscono molte persone, dividiamo le classi in posti diversi, tra tende e capanne nella foresta. I bambini hanno imparato a guardare in alto per vedere se arrivano bombe. Se vedono un jet, sanno che devono correre da un’altra parte. Studiano nel pericolo: come fanno, insegnanti e studenti, a concentrarsi?”
Mancano il riso e l’acqua (raccolta a chilometri di distanza) e almeno 10 campi profughi sono stati portati via dalle alluvioni causate dal tifone Yagi che nelle scorse settimane si è abbattuto sul sud-est asiatico. In Myanmar ha ucciso almeno 200 persone. Eppure il vescovo, mentre racconta la vita della sua comunità, ha sempre il sorriso, a volte ride: “La mia forza sono le persone, mi danno coraggio”, ci spiega. “Dopo essersi sistemate nei campi hanno cominciato a chiedere: ‘Dove sono i nostri luoghi di culto? Vogliamo costruire una chiesa, vescovo, può aiutarci?’ Ora quasi in ogni campo c’è un luogo per pregare segnalato da una piccola croce. È una Chiesa nella natura, è molto bello”.
Nel novembre 2023, dopo un assedio di due settimane, mons. Ba Shwe è stato costretto ad abbandonare la cattedrale di Loikaw, che ospitava circa 70 persone tra religiosi e persone impossibilitate a fuggire, soprattutto anziani e disabili. Il centro pastorale era stato circondato da centinaia di soldati della giunta militare. “A dicembre siamo tornati, ma abbiamo preso solo i registri dei battesimi, con cui oggi i sacerdoti cercano le persone della propria parrocchia tra gli sfollati”. Il resto è andato tutto perduto. Perfino le tombe all’interno della cattedrale sono state dissotterrate, probabilmente perché i militari temevano che le PDF avessero nascosto lì le armi.
“Sono un vescovo senza cattedrale, ma sono felice. Quando sono scappato da Loikaw, molte persone mi hanno offerto di andare a Taunggyi o in altri posti sicuri dove non ci sono combattimenti. Ma come posso lasciare la mia gente? Devo andare dov’è il mio gregge. Le persone non hanno la chiesa, ma hanno i loro luoghi per pregare. È un’esperienza che, con tutte le sue difficoltà, mi ricorda la vita dei primi cristiani. Molti mi chiedono: ‘Vescovo, quando torniamo alla cattedrale?’ Io rispondo che la Chiesa non è un edificio. Quando le persone stanno insieme, si prendono cura l’uno degli altri, quando si amano, quando condividono: lì è la Chiesa”. Una Chiesa rinata nella tragedia della guerra: “I parroci e le suore ora si dedicano con più forza alla popolazione”, continua mons. Ba Shwe. “In alcuni campi profughi non c’erano catechisti. Ma chiunque sapesse guidare la preghiera o leggere il Vangelo e le Scritture è diventato un nuovo evangelizzatore”, racconta il prelato.
Anche la Caritas di Loikaw resta attiva: interviene nei casi più urgenti, quando le persone hanno finito il cibo o non hanno più denaro. “Non riusciamo a darci la struttura di una ong, ma siamo sempre vicino alla gente, con una clinica mobile per le visite mediche e con un gruppo di sostegno per coloro che sono più fortemente traumatizzati. Le suore, soprattutto, stanno vicino a chi soffre. E così raggiungiamo quelle persone nelle aree remote che le agenzie internazionali non riescono a raggiungere”.
“Anche se ci sono un sacco di sfide e di difficoltà, Dio ci sta aiutando”, sostiene convinto mons. Ba Shwe. “Quando mi dicono: ‘Vescovo, non abbiamo riso per i bambini’, arriva sempre qualcun altro che mi telefona per offrire aiuto. Quello che abbiamo non è abbastanza, ma agiamo un poco alla volta”.
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