Cattolici birmani al Papa: a Natale ricordi il nostro popolo nelle sue preghiere
Mae Sot (AsiaNews) - Chiediamo al Papa che con l’arrivo del Natale “continui a pregare” per il popolo birmano e con le sue parole “contribuisca a non far dimenticare al mondo le sofferenze del nostro Paese” . È l’appello commosso giunto ad AsiaNews da alcuni cattolici in Myanmar, anonimi per ovvi motivi di sicurezza. Lo stesso desiderio di tenere accesi i riflettori sulla sorte della ex Birmania è espresso da alcuni buddisti esuli in Thailandia. Parlano della crudeltà di un regime militare che in oltre 40 anni ha gettato l'intero Paese, una tempo fiorente, nella miseria, ignoranza e nella paura; dello sfruttamento massiccio di un popolo per il puro tornaconto economico; della paralisi di una generazione di giovani disillusi e sfiduciati che fuggono all’estero nella vana speranza di trovare un futuro migliore. Chiedono, però, al mondo di non dimenticare la tragedia che si consuma nella loro patria. Kyaw Lin Aung, 35 anni di Yangon, e Nay Zey Tun, 40 anni di Mandalay, sono riparati a Mae Sot dopo l’ondata di proteste anti-governative di fine settembre. Raccontano della violenza dei soldati contro il movimento pacifico dei monaci buddisti nelle piazze come pure nelle carceri. E avvertono: “La repressione non è mai finita!”.
Kyaw Lin Aung non riesce a dimenticare quello che ha visto e sentito da amici e parenti: “Gli spari contro i bonzi che recitavano preghiere di amore e pietà a Pakokku, gli incendi ai monasteri che si sono schierati contro il governo, ma anche i racconti di corpi di manifestanti bruciati nei forni crematori o sepolti in tutta fretta per alterare le reali cifre della repressione”.
Anche l’apparente disponibilità del regime di Naypydaw ad accettare le richieste della comunità internazionale sul rispetto dei diritti umani nasconde solo una feroce crudeltà. “Nel Paese girano spie travestite da monaci che contribuiscono all’arresto di giovani attivisti e religiosi buddisti - racconta Kyaw – nelle carceri questi vengono torturati e viene negata loro l’assistenza medica. È successo anche che dopo le pressione di Onu e Usa a liberare i detenuti, prima di liberarli, i carcerieri hanno fatto iniezioni con virus letali per far morire i manifestanti una volta tornati a casa ed evitare così ogni critica o responsabilità”.
Con questo e altri mezzi, la giunta militare birmana ha scelto di mettere a tacere chi nel Paese, a partire da questa estate, ha osato sollevare la testa e protestare contro politiche che hanno messo in ginocchio il Paese, consegnandone le ricchezze alle grandi potenze regionali.
Quando parla della sua patria Nay Zey Tun dipinge una nazione in ginocchio, quasi senza più speranza. La crisi parte dai servizi di base: sanità ed educazione. “Negli ospedali statali manca del tutto ogni forma di assistenza – racconta Nay – a volte è difficile trovare anche un cerotto ed il personale non lavora. Diversi mesi fa ho assistito mio padre ricoverato per una settimana e mi sono ritrovato a fare l’infermiere per altri pazienti: c’era una donna che doveva partorire e nessuno la aiutava, si è poi scoperto che il suo bambino era morto già da 10 giorni e nessuno se ne era accorto. L’hanno operata e poi ho dovuto parlare io con il primario del reparto che non sapeva niente. Per non parlare delle sale operatorie…da noi si dice che è meglio morire a casa, che andare a curarsi in ospedale”.
Anche l’istruzione affonda in una crisi profonda . “Con la nazionalizzazione delle scuole nel 1962 e l’espulsione dei missionari dal Paese - ricorda Kyaw - l’educazione ha subito una grave perdita. Il governo militare ha vietato l’insegnamento della lingua inglese fino al 1985. Molti dei testi universitari sono solo in inglese e i giovani insegnanti ora non sanno neppure leggerli. Regna una diffusa ignoranza e la gente non sa più cosa è la libertà, né conosce il valore della vita. Anche i giovani che si vogliono ribellare non sanno cosa chiedere esattamente: pur scendendo in piazza, aspettano qualcuno che li guidi, che si faccia portavoce delle sofferenze loro e dei familiari”. All’ignoranza si aggiunge una profonda depressione. “Nei villaggi si vive con la corrente elettrica disponibile solo 7 ore al giorno – spiega Nay – anche l’acqua non è distribuita regolarmente; ormai si lavora solo per riuscire a sfamarsi, non riusciamo ad avere un risparmio e così la gente non pensa più alla politica e aspetta che il mondo, da fuori, faccia qualcosa per cambiare le cose”.
La sensazione tra i birmani è che la comunità internazionale stia cercando un compromesso per non colpire troppo gli interessi delle grandi potenze regionali nella ex Birmania. India, Russia, ma prima di tutte, Cina. “Da 10 anni – denuncia Nay – Pechino sta praticamente colonizzando le nostre terre: le ditte cinesi delocalizzano le loro imprese in Myanmar, perché la manodopera costa ancora meno che in patria. Inoltre sfruttano il nostro territorio senza criterio, appropriandosi delle risorse energetiche e delle materie prime. La mattina intorno a Yangon si vedono file di camioncini carichi di operai, portati nelle fabbriche cinesi come animali al macello”.
La paralisi, la convinzione di non poter cambiare le cose spinge sempre più giovani a lasciare il Paese. “L’aeroporto – racconta Kyaw – è pieno di ragazzi che partono per andare a lavorare all’estero. Sono spaesati, non sanno come muoversi e pensano che emigrando potranno guadagnare di più. La maggior parte finisce per fare lavori molto umili in Malaysia o a Dubai”. “Per pagarsi il viaggio, però, - sottolinea Nay - spesso vendono i terreni e la casa dei genitori anziani, che rimango in Myanmar senza più niente da vivere. Ho letto i testi di alcune canzoni scritte da studenti di medicina che dicono più o meno così: ‘I miei figli vendono il mio campo e vanno all’estero, ricordatevi dei vostri genitori, che non possono neppure più coltivare il riso, e mandate loro almeno qualche spicciolo per una minestra’”.