Caso-Marò, il cappellano militare: Impariamo dalla carità dei pescatori indiani
Roma (AsiaNews) - Il 15 febbraio scorso due pescatori indiani restano uccisi in un incidente con la petroliera italiana Enrica Lexie, al largo delle coste del Kerala. Sin dalle prime indagini, unici indagati - e poi accusati in modo formale - sono Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, fucilieri del Battaglione San Marco, imbarcati sulla petroliera come guardie di sicurezza. Secondo la difesa italiana, i colpi sarebbe esplosi dopo aver scambiato il peschereccio indiano per pirati. Fermati il 19 febbraio scorso, i due marò sono rimasti in custodia giudiziaria per 90 giorni. Concessa la libertà su cauzione, ora si trovano in un albergo di Kochi in attesa della prima udienza per il processo di primo grado, prevista per il 17 luglio prossimo. Dal momento dell'incidente, la vicenda si è connotata di una doppia sfumatura. Da un lato, la macchina diplomatica, che ha alternato momenti di distensione e di tensione, legati a posizioni più o meno inconciliabili tra New Delhi e Roma (luogo esatto dell'incidente; responsabilità giuridica del caso) e ai tempi molto dilatati della giustizia indiana. Dall'altra, l'aspetto più umano: quello delle famiglie dei pescatori uccisi, alla ricerca di giustizia e non di giustizialismo, e dell'intera comunità cattolica di pesca. AsiaNews ha intervistato p. Giuseppe Faraci, missionario comboniano e cappellano militare, che ha seguito in prima persona i due marò e l'intera vicenda.
P. Faraci, come è iniziata la sua avventura in India?
Sono partito dopo la telefonata di mons. Vincenzo Pelvi, arcivescovo Ordinario militare per l'Italia. Conoscendolo, ho avvertito e compreso la gravità della sua voce. Mi ha detto: "Dobbiamo pensare a questi due cari ragazzi". E sono partito. Quando sono arrivato la prima volta, in genere facevo solo la mia visita quotidiana al carcere. Era il mio primo dovere, e l'unico che sentivo importante. Ma subito si è trasformato in una questione di amore, non più di lavoro.
Come è stato l'incontro con le famiglie dei pescatori uccisi?
Poco dopo il mio arrivo, è nata l'esigenza di metterci in contatto anche con le famiglie delle vittime, e la cosa non era semplice. Non avevo nomi, cognomi, indirizzi, né sapevo bene come orientarmi. Poi, una serie di circostanze "miracolose" mi hanno permesso di conoscere sia la famiglia di Jelestein, che vive in Kerala, che quella di Ajesh Binki, nel Tamil Nadu. Sono stato accolto subito con immensa carità e santità, una dignità totale. Una sensazione meravigliosa. Sono tornato molte altre volte, e piano piano si è creato un rapporto di preghiere reciproche, di affetto. Ricordo Dhoramma [vedova di Jelestein, ndr] avermi detto "Salutaceli tanto", "Preghiamo per loro, perché possano tornare dai loro cari".
Sin dall'inizio, mi sono posto e proposto di pensare a quattro famiglie, e non a due. Questa è stata la mia forza. Perché è chi resta a provare il dolore più grande: chi in India ha perso il padre o il fratello; chi in Italia non sa quando potrà riabbracciare i suoi cari. Vedere una madre - qualunque madre - che ti abbraccia, perché ti stai prendendo cura dei suoi figli come se fossero tuoi, ti dà il senso del tuo lavoro e della tua missione.
Che situazione ha trovato e che impressione si è fatto dell'India?
Subito dopo l'incidente, la reazione in Kerala è stata molto forte. La Chiesa lì ha grossi numeri, quindi i parrocchiani sono tutti pescatori, la comunità "colpita" dalla vicenda. La loro reazione all'inizio è stata un po' cieca, se qualche personalità del clero esprimeva concetti "forti", tutti i fedeli lo seguivano. E questo vale anche per le reazioni della comunità internazionale e in Italia: se una persona in vista ha detto qualcosa, allora vuol dire che la situazione è quella lì. Io sono andato, mi sono presentato: ho trovato porte aperte, inviti a pranzo, non ho dovuto fare "tentativi". Forse hanno capito che un buon cristiano cerca la giustizia e non la vendetta; cerca le ragioni e non le "mie" ragioni. Ho potuto vedere questo: che nella base colpita dagli eventi, non c'è nessuna forma di rancore, di odio, di vendette, di una ricerca di giustizialismo. Ho conosciuto un popolo con una religiosità molto profonda, radicata; gente molto aperta, tollerante, ma una tolleranza fatta di accettazione, non di sopportazione. Provo un'immensa gratitudine per aver vissuto tutta questa vicenda.
In questo contesto, cosa avete potuto fare per i familiari delle vittime?
Come Ordinariato militare d'Italia, ci siamo presi l'impegno di aiutare un figlio a famiglia per gli studi. Uno dei figli di Jelestein adesso andrà a studiare ingegneria in un college, penseremo noi all'intera retta. Nel caso di Ajesh Binki, abbiamo aiutato una delle due sorelle: andrà in un college a 20 km da casa, in modo tale da poter vedere nei fine settimana l'altra sorella e i parenti, senza sentirsi sradicata e disincarnata dalla sua storia e dai suoi ricordi. Loro erano già orfani di entrambi i genitori da sette anni, e il giovane si occupava in tutto e per tutto delle sorelle.
Che rapporto si è instaurato con la Chiesa locale?
Il lavoro del vescovo e dei sacerdoti che lavorano con la comunità di pescatori è stato fondamentale. P. Stephen Kulakkayathil [responsabile della pastorale per la diocesi di Quilon, ndr] mi ha fatto conoscere tutto quel mondo. Una volta, era la mia prima visita in India, un gruppo di pescatori mi hanno chiamato per benedire una loro barca, chiamata Thank You Jesus. Lì ho capito che stavo entrando in una nuova dimensione: io ero italiano, sapevano che ero un cappellano militare; loro avevano almeno mille motivi per essere risentiti, chiusi nel loro dolore, e invece hanno cercato il contatto. La vita di un pescatore in India è fatta di immensi sacrifici, devono sempre riuscire a guardare oltre le difficoltà. Mi sono dovuto inchinare dinanzi alla bontà del popolo indiano. Questa è forse la cosa più bella: nel dolore che reciprocamente provavamo, ci siamo uniti nel guardare oltre.
P. Faraci, che idea si è fatto della vicenda? I militari rischiano una condanna per omicidio...
Non mi sono fatto nessuna idea. Da comboniano dico che la nostra vita è baciata dalle croci, ma le croci sono alla base di ogni fioritura. Le opere di Dio nascono e crescono ai piedi della croce. Non mi sono mai permesso di fare il giudice. È chiaro che un'idea ce l'ho, ma io sono andato lì da sacerdote, e poi è diventata una questione di famiglia. L'unico desiderio è aiutare e spingere questa gente a guardare avanti, senza perdere la speranza. Da una questione di dolore e di morte sta diventando una questione di amore. Un amore che abbraccia famiglie su fronti diversi: si parla di eventuali assassini e di vittime; di indiani e di italiani; di contesti culturali del tutto diversi. Prima di rientrare, ho detto ai ragazzi [i marò, ndr]: "Quando tornerete in Italia, dovrete essere voi i primi due a continuare ad aiutare queste famiglie. Altrimenti non abbiamo imparato niente da questa esperienza". Non per un dovere, non per riconoscenza, non per risarcimento, ma per un dovere di carità.