Cambiamento climatico e lavoro: quando è il caldo a uccidere in fabbrica
Il 1 maggio in molti Paesi dell'Asia coincide in queste ore con temperature superiori ai 40 gradi. Condizioni sempre più frequenti che - come spiega uno studio del Global Labor Institute sulle aziende tessili di Bangladesh, Cambogia, Pakistan e Vietnam - rischiano di compromettere salute dei lavoratori e produttività senza adeguati interventi di mitigazione.
Milano (AsiaNews) – Da giorni l’Asia Meridionale e il Sud-est asiatico si trovano ad affrontare un'ondata di caldo eccezionale, che in diversi Paesi ha fatto salire la colonnina di mercurio sopra i 40 gradi centigradi, con punte anche di 45. Dal Bangladesh alla Thailandia, passando per vaste regioni dell’India, del Myanmar, della Cambogia, delle Filippine, si registrano vittime a causa delle alte temperature. I governi sono corsi ai ripari decretando la chiusura delle scuole. Ma c’è anche un altro volto su cui diventa particolarmente significativo soffermarsi in questa giornata del 1 maggio: l’effetto che le condizioni climatiche sempre più proibitive hanno sul mondo del lavoro.
Proprio all’incidenza del problema nei Paesi oggi interessati dall’ondata eccezionale di calore dedicava qualche mese fa un interessante studio il Global Labor Institute, l’istituto di ricerca dell’università americana di Cornell che analizza le condizioni di lavoro nelle catene di approvvigionamento dei mercati globali. Intitolata “Un livello più alto? La crisi climatica, il mondo della moda e i suoi effetti sui lavoratori” l'indagine affronta il tema dell’impatto di due fenomeni come le temperature sempre più alte e le inondazioni sempre più frequenti sulla vita dei lavoratori che operano nelle industrie del tessile e delle calzature in Bangladesh, Cambogia, Pakistan e Vietnam, quattro Paesi che da soli rappresentano il 18% della produzione mondiale di questi settori. Giungendo a una conclusione estremamente allarmante: senza interventi adeguati di mitigazione non solo la salute dei lavoratori locali diventerà ogni giorno più a rischio, ma anche la stessa produttività delle aziende è destinata a crollare, con il rischio concreto di un approccio “taglia e scappa” che comporterebbe costi sociali altissimi. Secondo i calcoli degli analisti già entro il 2030 in questi quattro Paesi dell’Asia potrebbero andare persi oltre 958mila posti di lavoro, con danni economici per 65 miliardi di dollari.
Lo studio si basa sull’indice WBGT (Wet Bulb Globe Temperature) che misura la combinazione tra caldo e umidità in un determinato ambiente. Secondo gli esperti se questo indice supera quota 30 chi lavora è sottoposto a gravi situazioni di stress fisico. Incrociando il dato con l’evoluzione del clima in Asia, risulta che una città come Karachi nel 2030 potrebbe far registrare ben 190 giorni su 365 di superamento di questo valore. Ma anche a Dhaka diventerebbero 65, per salire addirittura a 105 nel 2050. E condizioni non molto diverse si registrerebbero anche a Chittagong, Ho Chi Minh City e Phnom Penh.
Secondo l’Organizzazione mondiale del lavoro all’interno di una fabbrica non si dovrebbe mai lavorare con temperature superiori ai 32 gradi centigradi. Ma in un caso su cinque i suoi ispettori in Cambogia hanno trovato lavoratori all’opera in ambienti con temperature superiori ai 35 gradi centigradi. Di qui l’importanza di adottare sistemi efficaci di condizionamento e di ricambio dell’aria negli ambienti di lavoro, che sono poi anche investimenti per le aziende: si calcola, infatti, che il troppo caldo possa far diminuire la produttività anche del 15%. Discorso analogo vale anche per la prevenzione del rischio alluvioni: in Bangladesh, ad esempio, il 32% degli stabilimenti tessili che esportano in tutto il mondo si trovano in aree dove basta un innalzamento di mezzo metro del livello delle acque per interrompere il lavoro per molti giorni. Anche in Vietnam il 31% delle fabbriche è esposto a questo tipo di rischi.
Oltre agli investimenti nelle strutture, però, il rapporto del Global Labor Institute sollecita anche misure legislative per proteggere i singoli lavoratori dalle conseguenze del cambiamento climatico. Perché ore di lavoro perse a causa dell’impossibilità di raggiungere la fabbrica a causa di un’alluvione o di un cattivo stato di salute provocato da un’ondata di calore, oggi in almeno tre dei Paesi in questione significano inesorabilmente un danno economico personale, con una perdita secca di salario. Un’indagine condotta a Dhaka riferisce di un 10% di reddito in meno nei periodi meteorologicamente più difficili. Nelle interviste i lavoratori parlano espressamente dell’obiettivo di “scavallare” i mesi di maggio, giugno e luglio, quelli in cui le temperature e l’umidità si alzano. Mentre a Karachi gli operatori delle ambulanze hanno raccontato che più della metà delle persone morte nell’ondata di calore del 2018 erano operai provenienti dai quartieri più poveri della città. Qualche garanzia in più esiste in Vietnam, dove la legge effettivamente offre qualche tutela in materia; anche se non sempre, poi, ciò che è scritto sulla scarta si traduce in realtà.
In definitiva - conclude lo studio promosso dall’università di Cornell - resta essenziale la presa di coscienza del problema da parte di tutti gli attori coinvolti nella produzione. Compresi i grandi marchi della moda che finora - anche nei codici di condotta stesi contro lo sfruttamento del lavoro nelle fabbriche dei loro fornitori - hanno in gran parte ignorato la questione.
02/05/2022 10:11