Braccio di ferro Ankara-Stati Uniti: sì alle operazioni militari contro i curdi in Iraq
Ankara (AsiaNews) - Il Parlamento turco ha approvato la mozione preparata dal governo del premier Erdogan, che autorizza l’esercito a compiere - “se necessaria” - un’operazione militare su vasta scala nell’Iraq settentrionale per sterminare in modo definitivo i campi dei curdi del PKK (il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, fondato da Ocalan). L’operazione potrebbe durare un anno. Erdogan ha detto che il voto non significa che l’azione militare è imminente, ma la decisione del parlamento è piena di pericoli e incognite a livello mondiale.
Essa cade in un momento molto delicato per i rapporti tra Turchia e Stati Uniti, deterioratisi negli ultimi tempi.
Alla decisione di incrementare la lotta al PKK, sconfinando anche in Iraq, si è giunti dopo l’uccisione di 13 soldati turchi, l’8 ottobre nel sud est del Paese, al confine iracheno. Non è certo la prima volta che militari turchi rimangono uccisi durante l’operazione “incudine”: dall’ aprile di quest’anno – da quando è scaduta la tregua unilaterale che il PKK aveva dichiarato prima dell’inverno - più di ventimila militari sono sulle tracce dei militanti terroristi curdi. Ma stavolta il risentimento nazionale è alimentato anche dallo sdegno contro la risoluzione che la Commissione per gli affari esteri della Camera Usa ha varato il 10 ottobre sugli eventi della prima guerra mondiale in territorio ottomano e sul “genocidio armeno”.
Fino ad ora proprio il divieto dell’America ha fatto da freno ad un intervento militare in Iraq; ora la risoluzione sul genocidio è un ottimo asso nella manica da giocare “ai danni degli Stati Uniti”, per trovare una via d’uscita all’ancestrale frustrazione turca sull’irrisolta questione del terrorismo curdo e sulle accuse del genocidio armeno che da novant’anni continuano a perseguitare la Turchia.
Giorni addietro, il generale Yasar Buyukanit, capo di Stato Maggiore, aveva avvertito che se la risoluzione fosse stata accolta dalla Camera dei rappresentanti Usa, ciò “avrebbe causato un danno irreparabile nelle relazioni militari turco-statunitensi”. E così sta succedendo, senza calcolare gli effetti negativi che questa rappresaglia potrebbe rappresentare a lungo termine per la stessa nazione turca, perdendo questo stretto alleato.
Finora il primo ministro Erdogan aveva mantenuto una posizione abbastanza neutrale di fronte all’insistenza militare di un intervento ad oltranza, giustificando la sua prudenza con un generico “dobbiamo considerare tutte le conseguenze politiche, economiche, diplomatiche e militari”. Ora ogni tentennamento sembra essere venuto meno. Alla nazione che chiede con forza una risposta chiara al terrorismo, egli ha dichiarato senza mezzi termini: “qualunque sia il prezzo da pagare lo pagheremo, abbiamo perso la pazienza”. Di più, assecondando l’anti-americanismo turco ormai salito alle stelle, ha esclamato che n ci i fermerà neanche davanti al veto degli americani, visto che “loro non hanno chiesto il permesso a nessuno per colpire l’Iraq”.
Braccio di ferro, dunque, tra Ankara e Washington (che non desidera certo un conflitto armato nell’unica zona del paese che pare pacificata), alla quale il governo turco potrebbe addirittura vietare o limitare l’accesso alla base aerea della Nato nella Turchia meridionale, ad Incirlik, attraverso cui passa il 60% del traffico Usa diretto in Iraq.
Prima delle elezioni politiche del 22 luglio, a far tentennare il governo turco era il parere dell’opinione pubblica. Ora questo ostacolo è superato: da più parti si chiede l’intervento militare nell’Iraq settentrionale “per estirpare radicalmente il terrorismo che non dà pace e uccide continuamente giovani ed innocenti turchi militari e civili”. E vittime sono considerate veri e propri martiri della Patria; per i loro familiari si fanno collette nazionali che in pochi giorni hanno raggiunto la cifra di 45 milioni di lire turche (circa 27 milioni di euro).
Eppure non tutti sono convinti che un’operazione militare sia l’unica e decisiva soluzione in grado di sconfiggere il PKK.
“La lista degli interventi militari turchi nell’Iraq è lunghissima”, affermano analisti militari turchi e occidentali. “In particolare negli anni ‘90” – dichiarano – in almeno due occasioni l’esercito di Ankara aveva sconfinato in Iraq con decine di migliaia di uomini e grande spiegamento di mezzi. L’appoggio di alcune fazioni curde locali e quello logistico degli americani non fu sufficiente per sconfiggere il PKK. E – continuano – in caso di attacco i militanti del PKK si disperdono nelle montagne per poi tornare quando la tempesta è passata. Per quale ragione in questa occasione le cose dovrebbero andare diversamente? Soprattutto se si tiene conto che in questo caso i turchi non potrebbero più contare né sull’appoggio dei curdi locali né su quello degli americani”.
Inoltre il nord Iraq di oggi non è quello degli anni 90: fa parte di uno stato legittimo, con un suo presidente della repubblica e un ministro degli esteri. Proprio il presidente della regione autonoma del Kurdistan iracheno, Massud Barzani, afferma che l’invasione turca sui monti Qandil, dove si ritiene ci siano le basi dei dirigenti del PKK, sarebbe da ritenere un’aggressione all’indipendenza dell’intera zona che proprio a novembre sarà chiamata a decidere le proprie sorti attraverso un referendum popolare. Sotto questione è anche la città di Kirkuk - ritenuta la “Gerusalemme curda” per l’impasto di etnie e religioni presenti - che secondo le aspettative e i calcoli di Barzani con questo referendum dovrebbe restare sotto l’influenza del Kurdistan iracheno, lasciando così in mano ai curdi le pingui rimesse derivate dall’estrazione del greggio (patrimonio petrolifero pari alla metà di tutto quello iracheno). Un boccone che fa gola a molti e che rischia di diventare per questo una nuova polveriera in Medio Oriente.