Bangladesh, donna frustata a sangue per una fatwa del villaggio
Dhaka (Asia News) – Frustata a sangue fino a svenire per aver chiesto il riconoscimento della paternità del proprio figlio, il cui padre sarebbe un uomo già sposato e con prole. È quanto accaduto a una ragazza-madre in un villaggio del Bangladesh, condannata da una fatwa emessa dal capo tribù per “falsa testimonianza”. Un’attivista per i diritti umani definisce il caso “un sordido esempio di discriminazione sociale” causato dalla mancanza di leggi a tutela della donna e di "un’evidente disparità nei diritti”.
Rahima Akter è ricoverata al Medical College Hospital di Dhaka dopo essere stata punita pubblicamente, in base a una sentenza emessa da un giudice islamico che l’ha condannata a 100 frustate. Il fatto è avvenuto nel villaggio di Noagon, situato nel sottodistretto di Daudkandi, nel Bangladesh orientale.
In un’intervista ad AsiaNews, Rasheda Begum – madre di Rahima – racconta la vicenda: “Alle 8 di sera del 22 maggio – riferisce la donna – è iniziato il processo contro mia figlia, presieduto dal mullah del villaggio. Mia figlia ha spiegato di aver intrapreso una relazione extraconiugale con Abdul Karim, sposato e padre di tre figli, in seguito alla quale è nato mio nipote, Ramzan”. In precedenza la giovane madre aveva rivendicato la paternità, senza mai ottenere il riconoscimento del figlio.
Rasheda (nella foto) spiega che il processo si è tenuto nella scuola islamica del villaggio e ad assistere vi erano “fra le 200 e le 400 persone”. “Mia figlia – continua la donna – ha giurato sul Corano che il padre era Karim, ma l’uomo ha negato con forza, giurando anch’egli”. I giudici hanno dato ragione all’uomo – secondo l’islam la testimonianza di un maschio vale più di quella di una femmina – condannando Rahima a cento frustate. Dopo 39 colpi la ragazza ha perso conoscenza; in un primo momento i genitori hanno portato a casa la figlia, ma le gravi ferite subite hanno reso necessario il ricovero in ospedale. I leader del villaggio hanno intimato alla famiglia di non sporgee denuncia alla polizia, minacciando ritorsioni.
Il medico curante – interpellato da AsiaNews – riferisce che “le condizioni della ragazza sono apparse fin dall’inizio serie: ero scioccato da tanta brutalità”. Il 26 maggio tutta la famiglia è stata trasferita al policlinico di Dhaka per effettuare il test del Dna; le autorità sanitarie hanno impedito l’ingresso a estranei “per ragioni di sicurezza”. La polizia assicura indagini approfondite e ha già arrestato “tre delle sei persone incriminate per il fatto”. Essi sono: Moulana Abul Kashem, 55 anni, Abdul Karim, il presunto padre 35enne e Shah Alam, 50 anni. Le forze dell’ordine sono sulle tracce degli altri tre indagati, ma il caso presenta diverse difficoltà perché l’ordinamento giuridico non prevede leggi specifiche in materia di fatwa emesse dai dottori islamici.
Attivisti per i diritti umani definiscono vergognosa la vicenda. Khushi Kabir, coordinatrice di una organizzazione per i diritti umani che aiuta le famiglie povere, sottolinea che “non vi sono leggi che regolano le sentenze emesse dai tribunali islamici” e vi è anche “carenza di normative sulla definizione della paternità”. L’attivista giudica la vicenda di Rahima “un altro sordido esempio di giovane donna vittima di grave ingiustizia”. Sarah Hossain, avvocato e attivista per i diritti umani, bolla il fatto come “discriminazione sociale contro le donne” causata dalla “mancanza di norme specifiche”.
L’uguaglianza tra uomo e donna è ancora un miraggio in Bangladesh, dove la cultura patriarcale prevale sulle politiche a favore dell’emancipazione femminile e le stronca sul nascere. Nonostante le aperture del governo e delle forze sociali, ulema ed esperti di legge islamica si sono sempre opposti all’eguaglianza dei sessi, perché incompatibile con il Corano e la Sunna – gli atti e i detti del profeta. In Bangladesh vi sono inoltre numerosi casi di donne sfregiate dall’acido perché osano ribellarsi al marito o rivendicano maggiore giustizia sociale: dal primo caso documentato nel 1967, vi è stata una progressiva escalation. Dai 47 casi del 1996, ai 130 del 1997 e 200 nel 1998. solo nel 2002 sono state più di 480 le donne sfigurate dal vetriolo.
A ottobre del 2008 AsiaNews ha pubblicato la storia di una ragazza sfigurata dall’acido dal marito perché i familiari non pagavano la dote. Campagne di sensibilizzazione interne e internazionali hanno spinto il governo a varare, nel 2002, una severa legge contro il costume di gettare acido in faccia a giovani donne per motivi economici, o per gelosia, o perché resistono a proposte sessuali. Ma, a fronte di 1.428 denunce dal 2002 al 2007, la giustizia ha intentato solo 190 processi, in seguito ai quali sono state emesse 254 sentenze di condanna.