Bangkok vuole processare otto funzionari per il massacro di Tak Bai del 2004
Nel mirino dei magistrati il loro ruolo nella morte di 78 giovani musulmani rinchiusi su mezzi militari. L’incidente avvenne nell’estremo sud del Paese, teatro da decenni di tensioni separatiste e confessionali. Sul procedimento grava però il rischio di prescrizione e rischia di far riemergere lo scontro fra il partito di governo e l’establishment militare e nazionalista.
Bangkok (AsiaNews) - Saranno processati otto funzionari della sicurezza per il loro ruolo nel massacro di Tak Bai in cui, il 25 ottobre 2004, morirono 78 giovani musulmani rinchiusi su mezzi militari per presunte attività eversive nell’inquieto sud della Thailandia. Una decisione che giunge a quasi 20 anni dall’evento che rese di fatto inconciliabili le pretese ufficiali di dialogo con controparti sfuggenti e spesso poco rappresentative, come finora dimostrato dallo stallo nei colloqui; ma che, al tempo stesso, evidenziarono ancora di più la natura intransigente e di tipo coloniale del controllo di Bangkok sull’estremo sud, nelle quattro province (Songkhla, Pattani, Yala e Narathiwat) a maggioranza o con consistente presenza musulmana eredi di un sultanato esteso un tempo anche su vaste aree dell’attuale Malaysia.
Vent’anni fa, a seguito di proteste scoppiate a Tak Bai, provincia di Narathiwat, per il tentativo di arresto di sei presunti militanti locali, l’esercito e la polizia intervennero in forze uccidendo sette manifestanti, arrestandone 1.300 e caricandone un gran numero, uno sopra l’altro, su camion. A decine morirono soffocati sotto il sole e impossibilitati a liberarsi. L’allora esecutivo guidato da Thaksin Shinawatra, alla cui esperienza di governo guarda oggi il Pheu Thai guidato dalla figlia Paetongtarn Shinawatra, aveva espresso il proprio cordoglio per l’accaduto negando però ogni responsabilità diretta. Al contempo, la polizia aveva cercato di alimentare la tesi di estremisti armati fra i manifestanti fermati.
L’eccidio fu l’avvio di una nuova fiammata del conflitto a bassa intensità in corso da lungo tempo nell’estremità meridionale fra gruppi separatisti locali e forze di sicurezza, che aveva determinato prolungate fasi di stato di emergenza. Con conseguente repressione da un lato e azioni dimostrative devastanti portate fino nel cuore di Bangkok dall’altra, costate finora la vita a 7.600 persone.
L’annuncio dell’avvio dell’azione penale verso i presunti responsabili dell’evento, ormai al limite della prescrizione, è arrivato dopo che il mese scorso i familiari delle vittime avevano presentato una denuncia contro sette individui un tempo appartenenti alle forze di sicurezza. Tuttavia solo uno
di essi si ritrova nella lista presentata dal procuratore generale. “I sospettati avrebbero dovuto prevedere che le loro azioni avrebbero portato al soffocamento e alla morte delle 78 persone sotto la loro responsabilità”, ha sottolineato mercoledì il portavoce della procura generale, Prayut Bejaguran, in una conferenza stampa.
Significativo che i governi in carica dallo scorso anno a guida Pheu Thai (il primo in coalizione con il maggiore partito filo-militare, il secondo con gli ex avversari storici del Partito democratico) siano arrivati a questo punto. Come pure a stabilire la perseguibilità dei responsabili degli ultimi colpi di Stato, se ufficialmente denunciati. La tradizionale ostilità del partito verso le forze armate, la necessità di arrivare a una maggiore coesione della popolazione sulle proprie iniziative di governo e di garantirsi un maggiore consenso nel meridione thailandese, comincia a manifestarsi in modo chiaro. Di contro, non sono in pochi a temere che questo possa far riemergere il contrasto con l’establishment militare e le forze nazionaliste che in passato, ultimi casi nel settembre 2006 e nel maggio 2014, ha propiziato e preceduto il controllo diretto dei militari sul Paese.