Banche cinesi da ricapitalizzare: la Cina come la Grecia
di Maurizio d'Orlando
Le ricapitalizzazioni delle banche cinesi segnala che siamo a una nuova ondata nella crisi d’insolvenza mondiale. E questa volta tocca in pieno l’Asia. Se scoppia una guerra nel Golfo Persico, o se la BP fallisce si rischia un cataclisma finanziario.
Milano (AsiaNews) - Venerdì scorso è stata sospesa la quotazione ufficiale di borsa delle azioni della Banca di Cina (BdC) , la terza maggiore banca commerciale del paese. Secondo informazioni d’agenzia la BdC si appresterebbe a varare un aumento di capitale da 60 miliardi di yuan. Si tratta di un ammontare pari al 115 % del valore del capitale nominale finora emesso. In pratica la banca viene completamente ricapitalizzata. Sempre secondo fonti di agenzia, la sottoscrizione delle nuove azioni è garantita dal Central Huijin, un fondo sovrano cinese specializzato in investimenti all’interno del paese, che è già attualmente proprietario del 67,53 % del capitale della BdC.
Questi fondi sovrani sono stati costituiti allo scopo di gestire il patrimonio nazionale cinese generato dalle eccedenze valutarie andatesi accumulando in questi anni. In origine, lo scopo dichiarato di tali fondi era di garantire alle future generazioni la ricchezza accantonata mediante impieghi di capitale all’estero. In seguito è stata prevista la possibilità d’investire i fondi anche all’interno della stessa Cina.
Di fatto, questa ricapitalizzazione non è che un riconoscimento della necessità di ripianare le perdite sui crediti concessi dalla BdC. Di fatto, significa far pagare a tutta la comunità cinese gli errori di valutazione dei dirigenti della BdC e di chi doveva sorvegliarla, la Banca centrale cinese ed il ministero del Tesoro.
Di fatto, è quanto è già avvenuto anche altrove in questi ultimi anni a partire dal settembre 2007, prima negli USA (con il fallimento della AIG, della Lehman e dal piano di salvataggio Paulson e tutti gli altri che si sono succeduti), poi in Gran Bretagna ed in Irlanda, Svizzera, Francia, Germania, Belgio, Olanda ed eccetera. Di lì, come si sa, la moda è dilagata poi dappertutto e sotto tutti i climi, a partire dal Dubai.
La ricapitalizzazione della BdC è quanto i dirigenti cinesi hanno sempre fatto (AsiaNews ne aveva già scritto sei anni fa[1]): accumulare valuta convertibile mediante la sottovalutazione del cambio; con essa risanare periodicamente il sistema bancario svuotato con regolarità dai prestiti concessi con criteri politici per mantenere saldo il controllo del paese da parte del Partito comunista cinese. Il tutto ha un carattere strutturale, di sistema; dunque, non c’è niente di nuovo: è una notizia tecnica, di cronaca finanziaria, per addetti ai lavori.
Il debito delle banche e il debito pubblico
Qualcosa di nuovo, però, forse c’è. La novità è che appena un mese fa la BdC aveva già fatto ricorso all’emissione di obbligazioni convertibili in azioni per un valore di 40 miliardi di yuan. Si tratta quindi di una diluizione di capitale pari ad un po’ meno di 1 a 3. La novità è anche che pure altre banche cinesi come la Banca Cinese delle Costruzioni (China Construction Bank) e la Banca Industriale e Commerciale di Cina (Industrial and Commercial Bank of China) hanno annunciato delle ricapitalizzazioni per miliardi di yuan, mentre la Banca Agricola di Cina (Agricultural Bank of China) ha annunciato una ricapitalizzazione per 30 miliardi di yuan.
La novità è che sappiamo, e con noi lo sa anche il grande pubblico, come vanno a finire queste ondate di salvataggi e ricapitalizzazioni di banche ed imprese – “d’interesse nazionale” si diceva nell’Italia fascista – troppo grandi per essere lasciate fallire.
Quando emerge una grande ondata d’insolvenze bancarie, i salvataggi a carico dell’amministrazione pubblica non fanno altro che spostare l’insolvenza dalle banche, al rischio d’insolvenza sul debito sovrano, il debito pubblico. Insomma, il contagio greco viaggia verso la Cina, anche se non sappiamo con quale velocità. A giudicare, però, dal forte e pronto rialzo dei CDS (i famigerati Credit Default Swaps con cui si trasferisce a terzi il rischio d’insolvenza) sul debito di Stato cinese registrato sui mercati, l’onda d’urto in questo caso parrebbe viaggiare più velocemente che nei precedenti casi.
Sembra quasi che USA e Cina procedano all’unisono sul ciglio di una frattura strutturale, di sistema: dopo il comune fallimento, sia dello stimolo economico di Obama che di quello di Hu Jintao, entrambi i Paesi sono sulla strada dell’insolvenza pubblica, speriamo magari dolce, diluita nel tempo, una moratoria spalmata su molti anni.
L’alternativa è un evento traumatico o meglio una serie di eventi rari consequenziali la cui probabilità non è statisticamente commisurabile, i cosiddetti “cigni neri” descritti da Nassim Nicholas Taleb. Si tratta di eventi non inseribili, non prevedibili e non previsti negli algoritmi matematici alla base delle teorie statistiche ed economiche sottostanti ai “derivati”.
Oltre ad un conflitto nel Golfo Persico, un altro “cigno nero” potrebbe essere il possibile fallimento della BP a causa dei danni e dei relativi risarcimenti da accantonare per il disastro nel Golfo del Messico. Sarebbe una ripetizione del fallimento della Lehman Brothers (preceduto dal salvataggio della Bear Stearns), ma di proporzioni enormemente superiori. La BP, infatti, come quasi tutte le grandi compagnie petrolifere, ha un peso smisurato sul mercato dei derivati, molto più di quasi ogni grande banca: per l’emissione dei derivati, può fornire infatti, come controgaranzia, beni reali, gas e barili di petrolio contenuti nei giacimenti sottosuolo della multinazionale sparsi in tutto il mondo. Il mercato dei “derivati” è molto interconnesso e se la BP fallisse o perdesse il suo rango divenendo debitore AAA – cioè più che sicuro – tutta tale montagna di titoli finanziari atipici non quotati – circa 615 mila miliardi di dollari – ne sarebbe coinvolta e franerebbe. Sarebbe insomma il detonatore di un cataclisma finanziario senza precedenti, paragonabile all’evento che determinò la scomparsa dei dinosauri.
[1] Vedi AsiaNews, 07/01/2004, Due banche statali “salvate” per 45 miliardi di dollari a perdere
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