15/12/2011, 00.00
IRAQ - USA
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Baghdad, ammainata la bandiera Usa dopo 9 anni di guerra

Presente il segretario Usa alla difesa, Leon Panetta. Ieri a Falluja una folla esultante ha bruciato la bandiera americana. Un primo bilancio dell’operazione “Iraqi freedom”: uccisi 4500 soldati americani; oltre 100mila irakeni; spese per 1000 miliardi di dollari. La partenza delle truppe Usa lascia problemi di sicurezza, di integrità del Paese, di sopravvivenza per le minoranze, anche cristiane. Si teme la crescita dell’influenza dell’Iran.
Baghdad (AsiaNews) – Con una solenne cerimonia militare, la bandiera americana è stata ammainata stamane per essere riportata in patria. Con essa, anche le ultime 4mila truppe Usa, ritorneranno in patria entro il 31 dicembre di quest’anno.

Alla presenza di Leon Panetta, segretario Usa alla difesa, e del gen. Lloyd Austin, comandante in capo delle forze, si è conclusa la missione militare statunitense in Iraq, iniziata nel marzo 2003 con l’operazione Iraqi Freedom. La guerra è costata la vita a 4500 soldati americani e a oltre 100mila irakeni. In termini economici essa è costata agli Stati Uniti circa 1000 miliardi di dollari.

Nel suo discorso Panetta ha esaltato il contributo americano che “ha aiutato il popolo irakeno a rigettare la tirannia, per offrire speranze di prosperità e pace alle future generazioni della nazione”.

Ma molti irakeni si domandano se la loro presenza in Iraq è stata positiva. Un giorno prima della cerimonia a Baghdad, a Falluja centinaia di irakeni esultavano per la partenza dei soldati Usa e bruciavano la bandiera americana.

L’impegno americano ha avuto alti e bassi, ambiguità e eroismi. L’invasione Usa, motivata dal pericolo di armi di distruzione di massa in mano a Saddam Hussein, non ha trovato alcuna arma di distruzione, ma ha eliminato la sua spietata dittatura e in poche settimane il Paese è stato liberato da lui e dal potere del partito Baath.

La messa da parte dei membri del partito e dei militari ha ridato fiato ai gruppi fino ad allora oppressi (kurdi e sciiti), ma ha portato il caos nell’amministrazione e nel controllo della situazione.

Mentre lievitavano gli scontri sanguinosi fra milizie sciite e sunnite, anche con raid notturni, terroristi di al Qaeda prendevano di mira soldati stranieri, truppe locali e gente comune in un’escalation di violenze sempre più crudeli.

Nel 2004 scoppia anche il caso di Abu Ghraib, con le foto dei soldati Usa che torturano o disprezzano i prigionieri irakeni. Nel 2006 il gen. David Petreus cambia la strategia e lancia l’operazione “surge” che con 170 mila soldati americani riporta un barlume di sicurezza a Baghdad e dintorni. Da allora è iniziato l’addestramento delle truppe irakene per lasciare a loro il compito della sicurezza e si è cominciato a pensare al ritiro.

Al presente vi sono ancora sporadici attentati e tensioni fra kurdi, sciiti e sunniti per il controllo del territorio e delle risorse petrolifere. Anche la sicurezza non è alta e si registrano crudeli segnali di fondamentalismo, come la strage avvenuta a Zakho lo scorso 2 dicembre.

Molti pensano che la partenza dei soldati Usa aumenterà l’influenza dell’Iran sul vicino, e rischierà di dividere il Paese secondo confini etnico-religiosi. Tutto questo farà aumentare l’insicurezza per le minoranze, anche cristiane, fra le più colpite. In questi anni di guerra sono stati uccisi vescovi e sacerdoti, insieme a centinaia di fedeli, colpiti ad uno ad uno o in massacri come quello dell’anno scorso in una chiesa di Baghdad. Circa la metà dei cristiani irakeni sono fuggiti dal Paese, rifugiandosi in Siria, Giordania e – in minima parte – nei Paesi occidentali.
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